Dopo la Grande Recessione i mercati si erano abituati a una crescita lenta ma ininterrotta. Una certezza che sta svanendo
di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Dopo i violenti ribassi della scorsa settimana, i mercati finanziari cercano la stabilizzazione, chiedendosi quale narrativa prevarrà, e soprattutto se sarà confortata da evidenze economiche.
Dopo mesi di rialzo strisciante dei rendimenti sul dollaro, di indebolimento del biglietto verde che ha contribuito alla rivalutazione delle materie prime, che a loro volta hanno concorso a spostare verso l’alto gli indicatori delle attese inflazionistiche, è giunto il dato sul mercato del lavoro statunitense a gennaio, con quel rialzo dei guadagni medi orari oltre le stime.
Improvvisamente, i mercati hanno realizzato che forse l’inflazione non è morta e che le banche centrali hanno sottovalutato il fuoco sotto la cenere di tassi di disoccupazione ai minimi storici che “stranamente”, rispetto alla normale storica, non hanno sinora scaldato i prezzi. Alcuni economisti, forse frettolosamente, hanno decretato la morte della curva di Phillips, la relazione inversa che lega disoccupazione ed inflazione.
Scoprire improvvisamente che, forse, le cose non stanno in questi termini, è stato l’ultimo dei ricorrenti risvegli di soprassalto dei mercati. Con forti rialzi dei valori di volatilità attesa, variabile fondamentale per le borse, dopo anni di calo costante e parallelo a quello della variabilità macroeconomica. Dopo la Grande Recessione è stato come se il ciclo economico fosse morto, sostituito da una lunga espansione, a tassi non esaltanti rispetto al passato ma senza scossoni.
L’impennata di volatilità attesa ha scatenato le vendite su strumenti e strategie che puntano al controllo della medesima, alimentando una unidirezionalità del mercato che inizialmente ha fatto molto male a chi era investito in prodotti sofisticati che scommettevano sul calo strutturale della volatilità. Alcuni strumenti, come le Exchange Traded Notes che vendono volatilità sull’indice VIX statunitense, si sono letteralmente inceneriti, perdendo in poche ore l’80% e facendo scattare la clausola che ne determina il rimborso ai possessori a livelli risibili. Come scrivevo tempo addietro su queste colonne, per la prossima crisi finanziaria non è questione di se ma di quando, e l’acceleratore sarà ancora l’innovazione finanziaria.
E tuttavia una correzione di borsa, per quanto violenta, non induce necessariamente una recessione. Per quella, servono catalizzatori in grado di plasmare anche la congiuntura. Il maggior indiziato, ma non lo scopriamo oggi, è il debito. Tutto si tiene: al crollare della volatilità macroeconomica, cioè allo stabilizzarsi della crescita, aiutata da banche centrali molto accomodanti (per evitare che precedenti accumulazioni di debito evolvessero in una crisi distruttiva), la propensione del settore privato a indebitarsi è fortemente aumentata. Da un rialzo dei rendimenti di mercato, indotto da timori inflazionistici, possono derivare dissesti a catena, globali. I prossimi mesi metteranno alla prova la longevità di questa espansione economica.
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