Gli Usa restano indifferenti al deprezzamento della valuta, causato dalle crescenti frizioni protezionistiche di Trump
di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Il marcato deprezzamento del dollaro contro praticamente tutte le maggiori valute è stato la sorpresa del 2017, e la tendenza si è accentuata in questo scorcio iniziale del 2018. L’indebolimento del biglietto verde ha accompagnato il primo anno della presidenza Trump, a parte la forza delle prime settimane dopo l’esito elettorale, quando i mercati immaginavano riforme e stimoli fiscali di ampiezza tale da causare un boom dell’economia statunitense e costringere la Fed ad una vigorosa azione di restrizione monetaria.
Come quasi sempre accade, nel futile tentativo di prevedere l’andamento dei cambi, molti analisti ed osservatori sono stati colti di sorpresa dal movimento, ed ora cercano affannosamente di razionalizzare ex post quanto accaduto. Si può escludere che la debolezza del dollaro derivi da diversificazione delle riserve valutarie internazionali, di cui il biglietto verde rappresenta ancora i circa due terzi.
L’altro apparente enigma, quello di un dollaro in generalizzato calo pur in presenza di un ciclo restrittivo da parte della Federal Reserve, tende ad esser spiegato con la ritrovata forza dell’economia dell’Eurozona e la prossima conclusione dell’easing quantitativo da parte della Bce, che crea attese di un violento rimbalzo dei rendimenti sulla nostra sponda dell’Atlantico.
Alcuni osservatori imputano la debolezza del dollaro alla variabile politica, e specificamente alle pulsioni protezionistiche dell’amministrazione Trump, in crescita col passare del tempo e ormai passate dallo stadio dei proclami all’adozione di misure concrete, come i recenti dazi su pannelli solari e lavatrici, in chiave anti-asiatica e cinese, la rinegoziazione del trattato Nafta con Messico e Canada e la progressiva paralisi imposta da Washington all’Organizzazione mondiale del commercio, impedendo la nomina dei giudici del panel arbitrale in seno ad essa.
Le crescenti frizioni protezionistiche tendono a deprezzare il dollaro mentre la Casa Bianca guarda con benevola indifferenza alla debolezza della propria valuta. Gli Stati Uniti sono in uno stadio molto avanzato del ciclo economico, ed i mercati paiono oggi ipotizzare che la recente riforma fiscale non indurrà surriscaldamenti congiunturali. Inoltre, “deficit gemelli” (commerciale e fiscale) del paese, in una fase di fine ciclo, non depongono certo a favore di un apprezzamento del dollaro.
A tutto questo si aggiungono le incertezze su una Fed che potrebbe essere più docile verso la Casa Bianca e conciliante verso l’inflazione, e la guerriglia fiscale in corso tra Trump e Congresso, con la “serrata” del governo federale shutdown durata molto poco ma che potrebbe ripresentarsi a inizio febbraio. In occasione del precedente episodio del genere, durante l’Amministrazione Obama, nel 2013, il dollaro si deprezzò di oltre un punto percentuale contro un paniere delle maggiori valute. Per la Bce e gli europei, la debolezza del dollaro resta una garanzia di emicrania.
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