Effetto leva, così il successo dei bitcoin può diventare la nuova bolla sistemica

Nei derivati sulle materie prime è chiaro chi è il venditore naturale. Con le criptovalute invece no

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Per il bitcoin, l’inizio delle contrattazioni su due borse futures statunitensi dovrebbe segnare un momento di maturità, l’ingresso ufficiale nel novero degli strumenti finanziari scambiati su mercati regolamentati. In astratto, si potrebbe ritenere che la quotazione su mercati a termine rappresenti anche uno stabilizzatore delle quotazioni della criptovaluta, che negli ultimi mesi hanno conosciuto un andamento esplosivo che raffigura plasticamente un momento di isteria collettiva.

Ma le cose non sono così semplici: le banche che partecipano alla cassa di compensazione delle due borse futures hanno sollevato dubbi e resistenze. Il motivo è da ricercare nel fatto che i contratti a termine hanno senso se esistono compratori e venditori “naturali” dello strumento. Ad esempio, nel caso delle materie prime, il venditore naturale a termine è il produttore, che punta a garantirsi prevedibilità dei futuri flussi di reddito.

Nel caso del bitcoin, non esiste venditore naturale immediatamente identificabile. Per questo le banche manifestano perplessità: temono che, in presenza di flussi unidirezionali (quelli degli acquirenti), che vanno a leva, muovendo più soldi di quelli effettivamente impegnati nel contratto, si possa giungere a crack di vasta portata, le cui perdite ricadrebbero sulle banche partecipanti alla cassa di compensazione.

Per ora i margini iniziali su futures sono stati fissati a livello piuttosto elevato (circa il 40% del valore del contratto), limitando fortemente l’effetto di leva finanziaria. Stante la sinora limitata capitalizzazione delle criptovalute circolanti, il problema per la stabilità del sistema finanziario ancora non si pone, ma potrebbe divenire attuale proprio col ricorso massiccio alla leva finanziaria consentito dai futures. Il collasso di quotazioni gonfiate costringerebbe le banche centrali ad iniettare liquidità di emergenza nel sistema finanziario, per evitare la ripetizione della grande crisi degli scorsi anni.

Gli istituti di emissione hanno sin qui mostrato un atteggiamento di cautela verso le criptovalute, fatto di ammonimenti ma anche di analisi delle dinamiche economiche e finanziarie da esse indotte. Alcuni osservatori teorizzano la discesa in campo delle banche centrali, mediante emissione di criptovalute nazionali, per gestire e normalizzare il fenomeno.

Ma emettere “bitcoin di Stato” significa connettere i privati direttamente alle riserve delle banche centrali. Se da un lato ciò attrae chi teorizza di liberarsi dell’intermediazione delle banche commerciali e del sistema di riserva frazionaria e quanti sognano di avere banche centrali che creano moneta “al bisogno” o stimolano l’economia imponendo tassi negativi resi più efficaci dalla scomparsa del contante, dall’altro accentua l’instabilità del sistema finanziario, perché agevolerebbe le corse agli sportelli di banche commerciali in difficoltà, i cui clienti sposterebbero depositi verso la banca centrale con un click.


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