di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Dopo dieci anni, la Bank of England è tornata ad alzare i tassi d’interesse, portandoli a 0,5 per cento. Le condizioni dell’economia britannica sono di elevata e crescente incertezza, a causa del processo di Brexit, e la crescita ha subito un rallentamento a 1,7% annuale.
La disoccupazione è ai minimi da quarant’anni ma non si notano surriscaldamenti dei salari, il cui passo di crescita resta anzi inferiore a quello dell’inflazione, giunta al 3% sulla scorta del forte deprezzamento della sterlina successivo al referendum sulla Brexit ed alla manovra di nuova espansione monetaria attuata dalla banca centrale.
Il comunicato della banca centrale e la conferenza stampa del governatore Mark Carney hanno evidenziato due punti, in sostanziale contraddizione: il tasso di crescita potenziale del Regno Unito è stato drasticamente ridotto, ed è oggi a 1,5%. Ciò significa che l’attuale crescita eccede il potenziale e potrebbe quindi produrre pressioni inflazionistiche. Malgrado ciò, la banca centrale ha tolto dal comunicato il riferimento al fatto che il mercato, con mezzo punto percentuale di rialzo atteso nei prossimi due anni, starebbe sottostimando la stretta monetaria in arrivo.
Come spiegare pochi aumenti attesi dei tassi in presenza di una crescita superiore al potenziale, a sua volta ridotto a causa della bassa produttività? C’è una sola spiegazione: la nebbia sempre più fitta che avvolge la prospettiva economica del Regno Unito, col rischio che l’attuale decelerazione volga in qualcosa di peggio, dato l’elevato indebitamento delle famiglie, se i tassi dovessero risalire in modo sostenuto.
Il Regno Unito è in ritardo praticamente su ogni aspetto della preparazione all’uscita dalla Ue, che avverrà a marzo 2019. La posizione negoziale della Ue, per contro, appare ferma ed al momento non si vedono all’orizzonte euro-scialuppe di salvataggio per Theresa May, con buona pace di quanti pensavano che il surplus commerciale comunitario verso il Regno Unito avrebbe permesso a Londra una marcia trionfale nel negoziato.
I sostenitori della Brexit affermano da sempre che l’uscita netta e completa dalla Ue, un vero e proprio reset, è atto dovuto e rispettoso della volontà popolare espressa nel referendum. Ma serve conoscere per deliberare e l’impressione, sempre più forte col passare del tempo, è che quella volontà popolare sia stata malformata, stante la complessità della materia. Il governo May è poi debolissimo sul piano parlamentare, ed i Laburisti hanno avuto buon gioco a fare approvare una mozione che impegna l’esecutivo a svelare la valutazione d’impatto della Brexit su 58 settori del paese, tra cui turismo e nucleare.
Ogni tentativo di secretare quelle valutazioni, con la motivazione che altrimenti si indebolirebbe la posizione negoziale britannica, solleverebbe accuse di deficit democratico. Perché pare non basti invocare la taumaturgica democrazia diretta ed il mitologico “popolo sovrano”.
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