La rischiosa scommessa dei mercati: puntare su Trump senza credergli

Dietro i record di Wall Street la fiducia nel programma del presidente, ma non si prende sul serio il suo protezionismo

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Come è possibile avere contemporaneamente alla Casa Bianca un uomo che passa il tempo lanciando virulenti proclami protezionistici e mercati finanziari di tutto il mondo che crescono come se fossimo entrati in una nuova era di libero scambio e globalizzazione rampante, con la ciliegina sulla torta della “soglia 20.000” dell’indice Dow Jones? È quello che molti osservatori ed investitori si chiedono, dopo i rialzi successivi all’elezione di Donald Trump, lo scorso 9 novembre.

A ogni record si moltiplicano, come usa in questi casi, i consigli alla prudenza. E possibile che i mercati abbiano deciso che Trump non sarà realmente protezionista e che la sua affaristica propensione agli accordi bilaterali potrebbe risolversi in una spinta al commercio internazionale per altre vie. Il drastico calo di tassazione delle imprese promesso dall’immobiliarista newyorkese si è incorporato nelle quotazioni, l’attesa per un mega programma di spesa infrastrutturale finanziata con crediti d’imposta ha galvanizzato gli investitori, che forse si sono portati un po’ troppo avanti con gli scenari positivi. L'”invito” di Trump ai costruttori automobilistici a produrre negli Stati Uniti, e che sta “risucchiando” risorse e piani d’investimento pluriennali, arriva tuttavia in un momento di ciclo economico molto maturo, e rischia di sfociare in sovracapacità produttiva, che verrebbe successivamente pagata a caro prezzo.

Per ora, gli osservatori concordano su un aspetto: l’azione di politica economica di Trump rischia di iniettare stimolo espansivo in un’economia che opera già a pieno impiego. Ciò rischia di provocare un rafforzamento del dollaro e ampliare quel deficit di bilancia commerciale che Trump vede come fumo negli occhi, considerandolo rozzamente come prova del comportamento “truffaldino” dei partner commerciali degli Stati Uniti. Se questo scenario si realizzerà, sarà interessante osservare la reazione del presidente Usa. Che potrebbe sfociare nel tentativo di forzare la mano alla Federal Reserve, costringendola a frenare l’apprezzamento del dollaro, propagando disordine monetario.

Qualcuno rievoca uno scenario simile a quello dell’accordo dell’Hotel Plaza del 22 settembre 1985, quando le cinque maggiori potenze economiche dell’epoca si accordarono per porre fine alla corsa del dollaro, causata dalle politiche monetarie restrittive della Fed di Paul Volcker e da quelle fiscali espansive dell’amministrazione Reagan e che aveva scatenato appelli protezionistici dei produttori americani. Nei due anni successivi il dollaro perse il 50% del proprio valore contro le altre maggiori valute. Ma le interconnessioni produttive di oggi sono differenti da quelle di allora, con una ragnatela di catene di fornitura che avvolge il pianeta.

Al netto del recente lieve indebolimento del dollaro, i mercati mostrano di non credere ancora a Trump protezionista. Occhio ai risvegli bruschi.


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