Usa: gli effetti collaterali globali del protezionismo per via fiscale

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

In attesa dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, e di capire se la sua retorica protezionista verrà tradotta in realtà, è utile analizzare il progetto di riforma dell’imposizione sulle imprese, elaborato dai Repubblicani della Camera dei Rappresentanti, guidati da Paul Ryan, che di fatto tenta di raggiungere gli stessi effetti dei dazi minacciati da Trump, ma con apparentemente minori effetti collaterali.

La proposta si chiama BAT, Border Adjustment Tax (letteralmente, tassa di rettifica alla frontiera), e prevede che le imprese statunitensi possano escludere i ricavi da esportazioni dal calcolo del proprio imponibile fiscale, ma che non possano più detrarre i pagamenti a fornitori esteri, incluse proprie controllate. Con tale proposta, che agisce sul reddito d’impresa attraverso i suoi flussi di cassa, le esportazioni statunitensi diverrebbero più competitive e le importazioni più onerose, di fatto riproducendo gli effetti di competitività causati da un aumento dell’Iva. Il beneficio di bilancia commerciale indotto dalla tassa di frontiera determinerebbe un apprezzamento del dollaro, che compenserebbe la maggiore onerosità delle importazioni.

Il pacchetto fiscale di Ryan prevede inoltre che gli investimenti vengano interamente spesati nell’esercizio in cui sono sostenuti, e non più ammortizzati, e l’eliminazione della deducibilità degli interessi pagati dalle imprese sui finanziamenti. Se tale “tassa di confine” superasse l’esame dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, vi sarebbero pesanti ricadute sui settori economici statunitensi: le aziende del commercio al dettaglio, che importano massicciamente dall’estero, soprattutto beni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento) e rivendono con margini unitari molto bassi, finirebbero nei guai. Il primo nome che balza alla mente è quello di Walmart, azienda non particolarmente amata dai lavoratori e dalla sinistra ma il cui dissesto sarebbe una bomba sociale, oltre che economica.

Ma ad essere pesantemente colpiti dall’aggiustamento fiscale sarebbero anche i produttori di auto, che hanno una catena di fornitura internazionalizzata, e l’industria petrolifera, vista la ancora rilevante importazione di greggio da parte degli Stati Uniti. Per contro, le imprese che esportano, investono ed assumono massivamente finirebbero in costante credito d’imposta, ed ogni anno riceverebbero rimborsi fiscali miliardari e politicamente poco digeribili. La forte rivalutazione del dollaro indotta dall’aggiustamento d’imposta equivarrebbe ad una stretta monetaria globale, e causerebbe seri problemi a molte aziende estere indebitate nel biglietto verde, soprattutto sui mercati emergenti. Vedremo se ed in che modo Trump accoglierà la proposta Ryan ma i rischi di un terremoto per l’economia mondiale non appaiono lievi.

Buffo comunque che tra i maggiori tifosi del protezionista Trump vi siano i sovranisti monetari: quelli che vorrebbero una valuta da svalutare a piacere per esportare di più.

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