di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Dopo un inizio anno molto negativo ed il recente recupero, volatilità ed incertezza sono tornate a dominare i mercati finanziari. Una congiuntura globale incerta e frequenti revisioni al ribasso delle stime di crescita globale riducono la visibilità dei gestori di portafoglio e spingono a chiedersi se i motori che hanno spinto le quotazioni negli ultimi anni non siano ormai spenti. In altri termini, se l’ipotesi di grande stagnazione rilanciata tra gli altri dall’ex ministro del Tesoro di Bill Clinton ed ex rettore di Harvard, Larry Summers, sia all’opera e che impatto possa avere sugli investimenti.
Nei giorni scorsi è uscito un rapporto del McKinsey Global Institute che ammonisce che, dopo una crescita media del 7,9% dei mercati azionari statunitense ed europeo negli ultimi 30 anni, i prossimi 20 potrebbero vedere guadagni medi annui dell’ordine del 4%. Le determinanti della galoppata degli ultimi tre decenni sono rinvenibili in alcuni grandi trend che appaiono ormai esauriti. La fine della guerra fredda, l’arrivo dai baby boomer sul mercato del lavoro, il boom della produttività, la spinta della globalizzazione, la comparsa della potente domanda cinese e più in generale dei paesi emergenti, la disinflazione della Federal Reserve di Paul Volcker, che ha spinto in modo poderoso i multipli azionari. Ma anche la stessa innovazione finanziaria, nel bene e nel male, la bolla di credito ed il suo successivo scoppio, che ha spinto le banche centrali su un sentiero di stimoli non convenzionali per contrastarne le pressioni deflazionistiche. L’evoluzione della tecnologia diventa sempre meno avida di investimenti “estensivi” in capitale mentre minaccia profili professionali anche qualificati; l’andamento della produttività, pur se di malcerta misurazione, si è fatto apparentemente stagnante.
L’attuale scenario di rallentamento presenta quindi il rischio di una crescita di lungo periodo considerevolmente più bassa di quella degli ultimi tre decenni. Proiettare il presente su lunghi archi temporali tende a divenire futile esercizio di futurologia, destinato ad essere frustrato dalla realtà. Ma se questo andamento depresso del livello dei tassi d’interesse reali (cioè della domanda di capitali e in ultima istanza del vigore della crescita di lungo periodo) divenisse effettivamente la “nuova normale”, la ricaduta più vistosa si avrebbe sul risparmio previdenziale. Nelle realtà anglosassoni è da tempo iniziata la migrazione dai piani pensionistici a beneficio definito a quelli a contribuzione definita, dove il rischio di investimento grava tutto sulle spalle del risparmiatore. Lo stesso accade per modelli di previdenza alternativa come il nostro.
A fronte della prospettiva di ritrovarsi con un capitale a fini previdenziali molto inferiore alle attese, i lavoratori potrebbero aumentare il proprio tasso di risparmio, frenando ulteriormente la crescita. La sensazione di essere prossimi ad un muro è ineludibile. Abbatterlo o aggirarlo non sarà comunque indolore.
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