Fed, non basta l’aumento dei tassi per tornare alla normalità

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Dopo quasi dieci anni di espansione monetaria, tradizionale e soprattutto non convenzionale, la Federal Reserve ha proceduto al primo rialzo dei tassi ufficiali d’interesse. La ritrovata condizione di piena occupazione degli Stati Uniti e un tasso d’inflazione di riferimento (quello della spesa per consumi personali al netto delle componenti volatili di alimentari ed energia) che si è riportato in prossimità del 2% hanno indotto Janet Yellen e colleghi ad agire. Ma da ora in avanti ci si interrogherà soprattutto sul sentiero temporale dei prossimi rialzi, dopo che la Fed ha previsto per il 2016 un punto percentuale di rialzo, ben oltre quanto attualmente scontato dai mercati.

Gli Stati Uniti giungono all’appuntamento con la “normalizzazione” di politica monetaria con un’economia in ripresa ma pure con evidenti segni di incipiente recessione industriale, anche se il comparto manifatturiero rappresenta poco più del 10% del Pil. La crisi senza fine del cartello petrolifero dell’Opec sta accelerando il crollo delle quotazioni del greggio, mentre analoghe dinamiche di sovrapproduzione colpiscono tutto il comparto delle materie prime, complice la frenata dell’attività manifatturiera cinese, che a sua volta sta causando una gelata sul commercio mondiale.

La crisi dei prezzi di energia e materie prime sta colpendo severamente il segmento del mercato finanziario americano che per lunghi anni è stato tra i prediletti dagli investitori, quello delle obbligazioni ad alto rendimento (High Yield o junk bond), quelle di emittenti fortemente indebitati e finanziariamente fragili, i cui bond andavano a ruba nell’era dei tassi a zero. Molti di questi emittenti sono società specializzate nello shale oil, e il crollo dei prezzi del greggio ne ha terremotato i fatturati e la capacità di servire il debito. In conseguenza di ciò gli investitori sono fuggiti da questo tipo di investimenti causando preoccupanti effetti collaterali, ad esempio costringendo alcune società di gestione a congelare il rimborso a vista ai risparmiatori, per evitare di abbattere ulteriormente i prezzi di queste obbligazioni. In una tipica reazione a catena, anche le banche statunitensi esposte verso il settore cominciano a rivedere gli affidamenti alle imprese operanti nell’energia, e si trovano col rischio di un aumento di sofferenze.

Oltre a queste instabilità finanziarie, che tuttavia si alimentano di squilibri reali, i due grandi partner commerciali degli Stati Uniti, Canada e Messico, soffrono per il crollo del greggio ed il deprezzamento delle rispettive valute, e ciò destinato a riflettersi sull’interscambio commerciale. Per questi (ed altri) motivi, il primo rialzo dei tassi americani giunge quindi in un momento congiunturale molto differente dalle condizioni “classiche” di stretta monetaria. Per l’economia mondiale si preannuncia un anno di incertezze e volatilità


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