di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
In Portogallo, le elezioni politiche hanno prodotto un esito che potrebbe alimentare instabilità, con la vittoria della coalizione di centrodestra del premier Pedro Passos Coelho, che tuttavia non raggiunge la maggioranza assoluta dei seggi, ed una opposizione eterogenea e difficilmente coalizzabile, che spazia dai socialisti, che restano sostanzialmente pro-austerità, pur se con correttivi, ad una sinistra anti sistema composta dai “tradizionali” comunisti e dall’incarnazione portoghese della sinistra anti-Troika, il Bloco de Esquerda, benedetto da Syriza e Podemos, che ha ottenuto il 10% dei voti. La prima lettura dell’esito elettorale ha rimarcato il “successo” di un governo pro-Troika, che ha ottenuto aiuti per 78 miliardi di euro ed attuato riforme dall’impatto sociale pesante. Un’analisi più approfondita mostra una situazione differente.
L’elettorato non ha punito il premier in carica, pur esprimendo nei suoi confronti gradimento piuttosto basso, ma ciò può essere dovuto alla ripresa economica del paese, nell’ultimo anno e mezzo, quando la posizione fiscale è divenuta dapprima neutrale e poi moderatamente espansiva, attirando sul governo di Lisbona alcune rampogne da Bruxelles, peraltro piuttosto blande. Nel secondo trimestre di quest’anno il Portogallo è cresciuto su base annua dell’1,6% (qualcosa che in Italia avrebbe suscitato un’ola di giubilo a reti unificate da parte del nostro premier), con un robusto contributo tanto della spesa dei consumatori che degli investimenti. La disoccupazione ha iniziato ad essere riassorbita, passando dal 13,7% del primo trimestre all’11,9% del secondo, ma con un tasso di occupazione che resta simile a quello italiano, al 58,6%.
Il problema del Portogallo è che la crisi ha determinato una forte emigrazione, soprattutto tra i giovani, che ha depauperato la base di capitale umano del paese, ipotecandone il futuro: negli ultimi quattro anni la popolazione residente è infatti diminuita di oltre 200mila unità. La ricetta della Troika, mutuata dalla dottrina tedesca di una crescita trainata dall’export, non pare essere stata decisiva per il rilancio portoghese: il maggior contributo alla crescita resta quello fornito dalla domanda interna e comunque l’export, pur se cresciuto, resta complessivamente di basso valore aggiunto. In un’altra analogia col nostro paese, il Portogallo soffre da sempre di scarsa crescita della produttività ed è gravato da un elevato debito pubblico, al 130% del Pil. Ma è lo stock complessivo di debito dell’economia (pubblico, aziendale e delle famiglie), ad un astronomico 360% del Pil, che ha spinto il Fondo Monetario Internazionale a segnalare il persistente rischio di non sostenibilità, con le banche impiombate dalle sofferenze.
Il paese resterà appeso ad un lungo e debilitante processo di riduzione dell’indebitamento che ne condizionerà la crescita, esponendolo al rischio di ricadute. Oltre l’esito elettorale, la traversata del deserto non può considerarsi terminata.
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