di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Dopo la vittoria di Syriza alle elezioni greche e la formazione di un governo con un partito di destra populista anti-tedesco, i toni tra Atene e l’Unione europea sono progressivamente inaspriti sino a una apparente polarizzazione: lo schieramento guidato da Alexis Tsipras e che ha nel suo ministro delle Finanze, l’economista Yanis Varoufakis, l’esponente sinora più visibile e duro, accantonate le iniziali richieste di taglio del valore nominale del debito chiede ora una ristrutturazione del debito, che per circa l’80 per cento è verso l’Unione europea, legandone il servizio (cioè il pagamento degli interessi) alla crescita dell’economia, e un abbattimento dell’avanzo primario (entrate meno le spese, al netto del costo del debito) chiesto dai creditori alla Grecia per rimborsare quel debito.
L’attuale 4,5 per cento annuo è visto come un cappio che sta strangolando il Paese con una austerità distruttiva. Per la Ue e per il governo tedesco è fuori discussione ogni ipotesi di riduzione del valore facciale del debito e si può invece ragionare su un taglio del suo valore attuale netto, mediante riduzione del tasso d’interesse e allungamento dei termini di rimborso. Prima delle elezioni il consenso degli osservatori e dei mercati era per un accordo relativamente indolore. Ma l’atteggiamento del governo greco, e di Varoufakis in particolare, sta portando i mercati a ricredersi, e a prezzare in modo crescente l’ipotesi di un esito traumatico, almeno per la Grecia, a giudicare dall’impennata di rendimenti dei titoli di stato ellenici. Varoufakis ha messo una pietra tombale sulla Troika, da sempre vissuta dai greci come potenza coloniale occupante.
Ma il tempo stringe, occorre trovare una soluzione entro il 28 febbraio, quando scadrà il mandato di assistenza finanziaria sovranazionale. Dopo questo termine, in assenza di accordo, le banche greche perderanno l’accesso alla liquidità della Bce, che ha sinora compensato i forti deflussi di depositi, e si troveranno di fatto prive di fonti di finanziamento. Se un simile scenario si materializzasse, non vi sarebbe alternativa all’uscita in modo rovinoso della Grecia dall’euro. Lo scenario di “accomodamento” negoziale era sinora apparso quello più probabile: la Grecia ha già negoziato con la Ue condizioni di rimborso del debito molto favorevoli, tali da portare l’incidenza del servizio del debito su Pil a circa il 2,5 per cento nel 2014, contro il 4-5 per cento degli altri Paesi maggiormente indebitati, tra cui l’Italia. Ciò avviene anche in virtù del fatto che la Banca centrale europea, che possiede circa un decimo del debito greco, restituisce ad Atene l’interesse sui titoli di Stato ellenici detenuti a Francoforte e dalle altre banche centrali nazionali. I debiti greci con le istituzioni europee e con singoli Paesi creditori hanno scadenza molto lunga, in virtù della quale la durata media del debito greco è di ben 16,5 anni. Discorso diverso per i circa 58 miliardi di euro di debito di Atene verso il Fondo Monetario Internazionale, che potrebbe comunque essere rinegoziato.
Il rapporto debito-Pil greco, pari al 175 per cento, non è il maggior problema. Il problema è quel 4,5 per cento di avanzo primario e il fatto che sinora la quasi totalità dei crediti forniti alla Grecia sono andati a servire il debito pregresso e ricapitalizzare le banche domestiche, che malgrado ciò affogano nel debito privato in sofferenza o inesigibile. Il governo Tsipras vuole liberare risorse per alleviare le sofferenze della popolazione, la Ue non vuole creare un precedente che darebbe fiato ai movimenti populisti e antisistema che stanno crescendo in Europa. Ma quanto è realistica la posizione del governo greco? Atene vuole liberare risorse di welfare ma promette conti pubblici in ordine grazie alla mitologica lotta a corruzione, evasione e sprechi. Quindi, sulla carta, nessuna dissipatezza fiscale. Ma quanto è fattibile? E di che qualità di spesa pubblica parliamo, nel caso della Grecia? Se le erogazioni sociali per i soggetti in reale condizione di povertà e disagio economico hanno senso, molto meno ne ha aumentare il salario minimo, così da rendere il Paese meno competitivo.
Inoltre, come segnalato da Mario Draghi, la pressione fiscale e contributiva greca era pari, a fine 2014, a circa il 34 per cento, molto meno della media europea. Ciò indica endemica presenza di evasione fiscale e di ampio sommerso. In questi anni la Grecia non pare aver fatto rilevanti progressi sul piano di efficacia ed efficienza dell’amministrazione pubblica, soprattutto di quella fiscale. Il quadro cambierà radicalmente, con l’arrivo di un economista come Varoufakis, che ha la delega a entrate e spesa pubblica? Lecito avere dubbi. Ma c’è un altro elemento di criticità che rende unico il caso greco. Malgrado la drastica riduzione delle retribuzioni, il Paese non è progredito nell’export (che include il turismo) e il riequilibrio di bilancia commerciale è sinora avvenuto in prevalenza attraverso distruzione della domanda interna, come segnalato dal think tank Bruegel. Un accordo con la Ue resta possibile ma l’economia greca appare minata dalle fondamenta dall’incapacità di trovare un modello di sviluppo, e rischia di sostituire una deriva autodistruttiva a quella inflittale dal memorandum della Troika. Difficile scommettere sul lieto fine.
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