Aumentare le tasse per le aziende militari?

di Andrea Gilli

Sul Washington Post di qualche giorno fa, Walter Pincus, defense correspondent del medesimo quotidiano ha (ri)proposto l’idea di introdurre un’imposta sugli extra-profitti delle aziende militari. La ratio sarebbe la seguente: in tempo di guerra, i contractors della difesa fanno altissimi profitti. Ciò permette a pochi (le aziende) di guadagnare sul sacrificio di molti (la popolazione e i suoi soldati). Pertanto, lo stato dovrebbe riprendersi parte di quei fondi.

L’idea mi pare parecchio bislacca e per diverse ragioni.

In primo luogo, oramai non è più vero che il costo delle guerre viene sostenuto dai più a vantaggio di pochi. Al massimo, mi pare vero il contrario. Gli Stati Uniti hanno una popolazione in uniforme pari a circa 1.5 milioni di persone, a cui si aggiunge un numero analogo di riservisti: totale 3 milioni, di cui però solo una parte partecipa direttamente ad azioni militari.

Direttamente, l’industria della difesa USA dà lavoro a 1.05 milioni di persone, a cui si sommano 850.000 individui che lavorano nel settore difesa per il governo federale, e circa 2.5 milioni di lavoratori dell’indotto. Il totale è 3.5 milioni.

Il problema del ragionamento di Pincus è però un altro: imporre delle imposte per aggiustare imperfezioni del mercato non può che portare ad altre, peggiori imperfezioni. Ragioniamo: se le aziende militari fanno extra-profitti, la ragione non può che trovarsi in qualche imperfezione del mercato. Il mercato della difesa è infatti particolare: un monopsonio (unico compratore) interagisce con un oligopolio (pochi venditori).

Senza entrare in modelli complicati, è evidente il rischio che l’imposta venga trasferita direttamente o indirettamente sul cliente e quindi, nuovamente, sui tax-payers. Paradossalmente, se anche ciò non dovesse succedere, la situazione non sarebbe necessariamente migliore: se i rendimenti dei contractors militari scendono, gli investitori avranno meno incentivi ad acquistare le loro azioni e obbligazioni, con l’unico risultato di far aumentare il costo del capitale del settore (che a sua volta verrà scaricato o sui contribuenti o sulla qualità dei mezzi militari).

C’è però un altro aspetto ancora più importante. Quando Pincus parla di extra-profitti, implicitamente suggerisce alti margini. In realtà, nel settore della difesa, i profitti sono determinati non dal mercato ma per legge, generalmente tra il 10 e il 20% (non molto se si considerano i margini di aziende quali Apple o Google).

Questo dato solleva due interrogativi rispetto alla logica di Pincus. In primo luogo, se i margini di profitto sono già limitati per legge, su quale base bisognerebbe imporre anche un’extra-tassa e con quali risultati?. In secondo luogo, come appare chiaramente, se i prezzi sono fissati esogenamente, l’unico modo con cui il fornitore può ottenere degli extra-profitti è aumentando le forniture. E qui arriviamo al punto centrale. Dall’esperienza recente, è chiaro come i contractors usino strategicamente sindacati, lavoratori e politici locali per far lobbying sul Congresso e ottenere così ordinativi più ampi di quelli necessari.

Il caso dell’F-16 è il più famoso: dal 1995 in poi, la US Air Force non era più interessata al mezzo. Il Congresso ha però continuato ad acquistarlo, in quanto questo era prodotto in alcuni stati chiave.

Da quanto detto, appare chiaro come il problema sia a valle, non a monte (come intende Pincus). Quelli che Pincus chiama extra-profitti sono il risultato di un procurement militare spesso indirizzato più a difendere posti di lavoro che non il Paese. Il problema, pertanto, non si trova negli elevati margini, ma piuttosto nei loro elevati valori assoluti. La soluzione, quindi, non si trova aggiungendo tasse, ma riducendo gli ordinativi o snellendo il loro ciclo produttivo. E ciò si può solo ottenere ristrutturando l’industria della difesa.


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