Agenda Monti, il lungo e difficile percorso verso la realtà

di Mario Seminerio – Libertiamo

Dopo mesi passati a discutere di una non meglio specificata “agenda Monti” vista soprattutto come luogo dello spirito, topos di posizionamento politico ma anche coperta di Linus che ricorda molto, nel marketing politico, la stessa opera di levigazione e consunzione del termine “liberale” che è stata fatta in questo paese negli ultimi vent’anni, abbiamo finalmente qualcosa che appare come un documento programmatico anche se si tratta, per ammissione del suo ispiratore, di un “primo contributo ad una riflessione aperta”. Per questo motivo gli assi portanti del documento appaiono al contempo generici ma anche stimolo di ulteriori riflessioni, analisi e critiche. Senza pretesa alcuna di esaustività, quindi, alcune considerazioni su ciò che di questo programma colpisce maggiormente.

C’è il grassetto iniziale, molto opportuno, su un’Italia che deve battersi “per un’Europa più comunitaria e meno intergovernativa, più unita e non a più velocità, più democratica e meno distante dai cittadini”.

Questo è l’obiettivo di una “comunitarizzazione” dell’Europa che idealmente segna il percorso verso forme federali e democratiche della costruzione europea. Inutile illudersi che non sarà un percorso lungo, lunghissimo, con numerose battute d’arresto ed altrettante regressioni, sotto il peso della crisi e di una visione del mondo che solo nell’approccio intergovernativo pensa di trovare la fonte suprema di tutela degli interessi nazionali. Ma la richiesta di un mandato costituzionale per il parlamento europeo e di crescente integrazione comunitaria sono parte irrinunciabile di questa visione della costruzione comunitaria.

Nella sezione relativa a ciò che l’Italia può fare, viene ribadito che battere i pugni sul tavolo non serve. Probabilmente è vero, ed è parimenti vero che essere credibili sul piano di riforme di struttura e controllo delle finanze pubbliche è precondizione per poter alzare la voce o essere più assertivi, se si preferisce la cifra stilistica del Professore. Quando, all’inizio della esperienza del governo Monti, abbiamo scritto che l’Italia avrebbe fatto i “compiti a casa” (espressione che ci provoca orticaria, e per il cui utilizzo chiediamo venia), avevamo anche scritto che non avremmo dovuto essere gli unici. Pensiamo che i tempi siano maturi per dare seguito a questo pensiero, e tradurlo in richieste politiche.

Non è un caso che, nel documento, si parli di – e si chieda, molto opportunamente – “maggiore solidarietà finanziaria attraverso forme di condivisione del rischio”. Questo è il momento logicamente ed operativamente successivo all’azione di risanamento strutturale del nostro bilancio pubblico e dei meccanismi di gestione della macchina amministrativa pubblica. A molti pare essere sfuggita la portata di una simile richiesta, che si accompagna anche alla richiesta di maggiore apertura (detta anche “completamento”) del mercato interno, espressamente rivolta a Francia e Germania, ed antico cavallo di battaglia del Monti commissario Ue. Questa richiesta sarebbe stata certamente più credibile se non ci ripresentassimo in Europa con l’assurdo protezionismo sul demanio balneare a favore degli incumbent, con ulteriore proroga quinquennale delle concessioni; ma in questa Europa non ci sono modelli di virtù, di questo è bene essere consapevoli, anche per evitare autoflagellazioni fuori luogo.

Quello su cui Monti dovrebbe e potrebbe insistere maggiormente è il fatto che la velocità di consolidamento fiscale sinora imposta dalla Germania all’Eurozona ed ai suoi paesi più fragili è alla base delle enormi sofferenze che stiamo vivendo, oltre che del dissesto collaterale del sistema bancario, non solo da noi. Vediamo, al momento, che sembrano affermarsi forme di “realismo” (o di sanità mentale) a livello comunitario ed a Berlino, con l’apparente disponibilità ad allungare il percorso verso il pareggio di bilancio. Anche noi dovremo utilizzare questa opportunità, se necessario: nessuna manovra correttiva deve essere prevista nel 2013, neppure se il deficit strutturale di bilancio rispetto al Pil dovesse mancare il pareggio. E’ questione di razionalità economica, oltre che di evitare forme di masochismo che la storia giudicherebbe criminale. Il percorso di massima razionalità, nell’azzeramento del rapporto deficit-Pil, sarebbe stato quello di un taglio strutturale del rapporto deficit-Pil dell’1 per cento annuo, non certo dei 6 (sei) punti di Pil in un biennio che ci hanno e ci siamo inflitti, con la firma in calce di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, per tentare di mostrarci “credibili” e correre verso l’autodistruzione del pareggio di bilancio nel 2013. Non è comunque tardi per prendere questo sentiero.

La sezione dell’agenda Monti che tratta del pareggio di bilancio su base strutturale e del percorso verso la riduzione del rapporto debito-Pil è molto lineare, soprattutto nel riconoscere le proprietà “aritmetiche” delle metriche di finanza pubblica:

«(…) realizzato il pareggio di bilancio e in presenza di un tasso anche modesto di crescita, l’obiettivo di riduzione dello stock del debito pubblico sarebbe già automaticamente rispettato»

Anche questa considerazione tende a sfuggire a moltissimi, forse perché siamo talmente flagellati da questa assurda crisi imposta ed autoimposta da non riuscire a capire le formule giuste. C’è tuttavia da enfatizzare la precondizione di quel “modesto tasso di crescita”, senza il quale il Fiscal compact sarebbe la corda a cui impiccarsi. La nostra “sovranità” deve esplicitarsi nel perseguimento della crescita come effetto di riforme strutturali ma anche di allentamento della stretta fiscale a livello europeo, più che come improbabili suggestioni di uscita unilaterale dalla moneta unica, peraltro suicide.

La sezione fiscale del documento montiano parla di riduzione del prelievo fiscale complessivo, soprattutto su lavoro ed imprese, da perseguire anche attraverso forme di “trasferimento del carico fiscale verso grandi patrimoni e consumi che non impattino sui più deboli e sul ceto medio”. I più perspicaci tra voi avranno già colto, in questo precetto, l’eco del “Libro Bianco” tremontiano del 1994, al netto dell’ovvia indeterminatezza “operativa” delle parole, che a qualcuno suggeriranno forse una strizzata d’occhio alle istanze di “socialità” che pervadono un paese che di economia continua non masticare più di tanto. Noi ci leggiamo una patrimoniale ordinaria onnicomprensiva, ad aliquota molto bassa. Sensazione confermata dal successivo riferimento a “meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitali”. Non sarà facile, ma per realizzare questo obiettivo di destrutturazione e ristrutturazione del sistema impositivo italiano servirà comunque avere una cosa chiamata crescita, ed anche in quel caso resterà comunque molto problematico. Ma occorre almeno provarci.

Nel testo vi sono poi riferimenti alla necessità di riprendere la stagione delle liberalizzazioni, e ciò è indubbiamente cosa buona e giusta, anche perché il “CresciItalia” non è stato esattamente un modello in tal senso (pur al netto delle condizioni di estrema criticità in cui è stato elaborato), perché “filosoficamente” erà già del tutto carente, ad esempio confondendo le liberalizzazioni con l’ampliamento di piante organiche di professioni cosiddette liberali esercitate in regime di riserva legale. Si può fare ben di più.

Decentramento della contrattazione collettiva, trasparenza “assoluta” della P.A., migliore utilizzo dei fondi strutturali europei, aumento dimensionale delle imprese italiane, sostegno alla ricerca, miglioramento dell’accesso al credito, creazione di un habitat accogliente per gli investimenti esteri, sostegno alla internazionalizzazione delle imprese italiane, agenda digitale (qualunque cosa ciò significhi), istruzione e status sociale degli insegnanti, sviluppo del turismo, potenziale dell’economia “verde” sono tutti temi ricorrenti, nei programmi elettorali italiani degli ultimi lustri, quindi non possiamo che sospendere il giudizio, visto che siamo anche fisicamente avversi ai luoghi comuni.

Ma non possiamo omettere un riferimento alla giustizia, con la necessità di riscrivere quasi interamente la legge anticorruzione ma soprattutto di cambiare la macchina giudiziaria non solo in senso del necessario efficientamento ma anche di “visione del mondo”, verso una terzietà compiuta ed un garantismo realmente universalistico e non classista-censitario. E beato il paese che non ha bisogno di magistrati inquirenti che si fiondano verso porte girevoli elettorali, sentendosi chiamati alla missione suprema di redentori dei mali del mondo, magari in nome di un malinteso senso della polis.

Sulle politiche del lavoro, interessante il riferimento all’esigenza di aumentare il tasso di attività femminile, che nel nostro paese è da sempre uno degli innumerevoli anelli deboli della catena del nostro non-sviluppo, ma con la compresenza di politiche di conciliazione famiglia-lavoro ed ampliamento del congedo di paternità. Le due dimensioni non possono e non debbono procedere disgiunte, pena la ricaduta in vecchie letture “produttivistiche” della società, da cui le donne escono sempre sconfitte nella loro “multidimensionalità” di vita, o il ridare fiato a visioni ultraconservatrici, in cui la destinazione finale della donna resta quella domestica.

Perseguire tali strategie di aumento della “partecipazione conciliata” delle donne è tuttavia sfortunatamente molto costoso: servono non trascurabili risorse fiscali, che al momento sono drammaticamente scarse, come dimostra anche l’introduzione del necessario ma terribilmente gracile sussidio “universale” di disoccupazione, per attuare la protezione del lavoratore e non dell’impiego. Discorso identico per il welfare in senso lato, ad esempio con la tutela dei non autosufficienti. Dovrà essere riformato l’ISEE, ma nessuno si illuda sull’esito finale: la ritirata della coperta corta e lacera dello stato sociale, distrutta nei decenni da un malinteso senso di “universalità” a fini di costruzione del consenso. La qualità di una leadership deriva anche dal parlare adulto ad un elettorato ritenuto altrettanto adulto, per lasciarsi alle spalle l’era delle fiabe raccontate da zombie al lume di una candela votiva, nel cimitero di una nazione di non-vivi.

E non è questione di Monti o non Monti. Ogni leader (vero o presunto) di questo paese dovrà fare i conti con questo meta-scenario e con questi soverchianti vincoli, che si sommano alla “ipoteca demografica” di un paese tra i più anziani del pianeta. Convivremo con frustrazione e recriminazione, ma è meglio operare per cambiare su basi di realismo, noi e l’Europa, che sognare la “rivoluzione” (più o meno “civile”) in un solo paese. Per tacere di quanto è deprimente imbastire campagne elettorali “single issue” come quella, sinceramente desolante, che vediamo in questi giorni sull’Imu prima casa, così ridicolmente identica a quella sulla eliminazione dell’Irap, nel secolo scorso. Anche le foreste pietrificate possono marcire, a volte.

Da ultimo ma non per ultimo, se questa agenda è un lavoro in corso che accoglie “contributi per una riflessione aperta”, non scordiamoci la sfera di quelli che vengono definiti (anch’essi con “levigazione” banalizzante) i “diritti civili”: condizioni delle nostre carceri, fine vita, unioni “non santificate”. Magari guardando, per una volta, all’esempio tedesco e di altri paesi che una nostra sciocca pubblicistica domestica si ostina a definire “socialmente conservatori”.


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