di Mario Seminerio – Il Tempo
Lo scorso 3 novembre, Mario Draghi inaugurava la sua presidenza della Banca centrale europea con un classico taglio del tasso chiave di politica monetaria. Un esile quarto di punto, nel mezzo della crisi più grave dall’avvio dell’era dell’euro, sotto la concreta minaccia che l’intero edificio fosse prossimo a crollare rovinosamente per gli errori marchiani della cosiddetta leadership europea e dell’egemone tedesco, ossessionato da un rientro dal deficit “senza se e senza ma”, che si sarebbe rivelato ferocemente pro-ciclico. Quel giorno in conferenza stampa Draghi fu molto attento a trasmettere l’immagine di banchiere centrale ortodosso e rispettoso dei trattati, e non poteva essere altrimenti.
Gli spazi di manovra per la politica monetaria dell’Eurozona apparivano drammaticamente limitati, dopo aver preso atto della impossibilità a schierare la Bce come prestatore di ultima istanza a favore degli stati sovrani. Se l’arma istituzionale a disposizione di Draghi fosse stata solo il taglio del tasso ufficiale, come in molti sospettavamo con crescente scoramento, l’orizzonte dell’Eurozona e del nostro paese appariva molto cupo, per non dire segnato. Ma Draghi in quella circostanza riuscì comunque a creare una importante discontinuità metodologica rispetto alla gestione di Jean-Claude Trichet: più attenzione all’evoluzione attesa dell’inflazione e meno al dato corrente, che tanto si era mostrato fuorviante.
Nelle settimane successive, Draghi non si è mai distaccato dall’ortodossia: no ad “avventure” fuori dai trattati, sprone ai paesi a consolidare le finanze pubbliche, interpretazione del livello dello spread come sanzione del lassismo fiscale. Un precetto caro ai tedeschi ma fallace, perché la periferia dell’Eurozona alla fine dello scorso anno ha sofferto di un gravissimo prosciugamento di liquidità, frutto della fuga di investitori sconcertati dall’uso del bastone e dall’assenza di carote (cioè mutualità e solidarietà) nel percorso di consolidamento fiscale imposto dai tedeschi.
Draghi, a inizio dicembre, tornava a mostrare adesione alle tesi di Berlino, invocando e battezzando quel “fiscal compact” che sta vedendo faticosamente la luce in queste settimane, presentandolo come lo strumento che avrebbe riportato “fiducia” sui mercati riguardo l’Eurozona, e che altro non è che la riedizione “cattiva” del Patto di Stabilità e Crescita rottamato dagli stessi tedeschi (allora in difficoltà) nel 2003. Anche in questo caso, le dichiarazioni “ortodosse” di Draghi lasciavano perplessi gli osservatori perché viste come un appiattimento sulla fallace diagnosi e terapia tedesca, di una crisi da eccesso di debito pubblico che in realtà è crisi da eccesso di debito privato e di competitività, oltre che di regolazione nazionale e nazionalistica di un sistema bancario transfrontaliero.
Ma Draghi operava anche fuori dalle dichiarazioni ufficiali, estraendo dal cilindro una potentissima arma, tanto poco convenzionale quanto pienamente legittimata dai trattati che regolano il funzionamento della Bce. Un vero e proprio lancio di denaro dall’elicottero, effettuato dalla Bce nella veste “ortodossa” di prestatore di ultima istanza alle banche. Quasi 500 miliardi all’1 per cento nell’asta del 21 dicembre, forse il doppio in quella del prossimo 29 febbraio. Una vera e propria operazione “shock and awe”, grazie alla quale siamo per ora usciti dalla fase più drammatica della crisi, fornendo una rete di protezione senza precedenti al sistema creditizio europeo.
Draghi si è finora mosso con grande intelligenza strategica e tattica, rispettando alla lettera tanto i vincoli istituzionali che la retorica dell’ortodossia monetaria tedesca. Ma nulla è davvero risolto, stiamo solo prendendo tempo. Draghi ha sin qui compensato tutte le profonde disfunzionalità della politica e gli ideologismi tedeschi, ma il fatto stesso che oggi ci rallegriamo di ciò indica il miserrimo stato di questa Europa, in termini di leadership di visione, oltre che di capacità di analisi.
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