Considerazioni sul declino relativo americano e sull’ascesa di nuove potenze – Unipolarity is here to stay

di Mauro Gilli e Andrea Gilli

Alcuni anni fa, su Epistemes e altrove (1 e 2) illustrammo le cause del declino relativo americano e dell’ascesa di nuove potenze. Anche se molte di quelle considerazioni rimangono valide, dopo anni passati a studiare in modo approfondito queste questioni, siamo arrivati a chiederci se le nostre conclusioni, e così quelle di altri come Fareed Zakaria e Richard Haas, non fossero state troppo affrettate.

E’ bene fare chiarezza. Quanto noi e altri hanno scritto sul declino relativo degli Stati Uniti non era basato su valutazioni approssimative, ma sulla letteratura esistente in relazioni internazionali, economia politica, e altre scienze sociali. Ad alcuni anni di distanza, abbiamo iniziato a chiederci se la letteratura esistente offra davvero una chiave di lettura per il futuro, oppuse se non sia basata su assunti impliciti ormai non più validi. In questo articolo affrontiamo la questione.

Convergenza condizionale, Gerschrenkron e emulazione
Uno dei punti di partenza di tutta la letteratura sulla crescita e sul declino delle grandi potenze è il riconoscimento che i tassi di crescita tra i paesi tendono a divergere, portanto così a cambiamenti nella distribuzione delle risorse e quindi del potere a livello internazionale. Più precisamente, seguendo l’intuizione di Robert Solow, alcuni studiosi in relazioni internazionali hanno capito l’importanza di quella che si chiama “convergenza condizionale” – ossia la tendenza dei paesi meno sviluppati a crescere a tassi superiori a quelli dei paesi più sviluppati.

Dietro al dibattito sulla crescita della Cina e sul declino relativo degli Stati Uniti Dietro si troverebbe proprio questo processo spontaneo di convergenza condizionale. Importante in questo contesto è l’aggettivo “relativo”. L’idea di fondo è semplice: il differenziale di crescita economica tra Cina (che cresce al 9% annuo) e Stati Uniti (che al più crescono al 3%) porterà secondo molti ad un livellamento delle loro differenze economiche, e quindi ad un riequilibrio del loro potere militare.

A favorire questo trend di convergenza sarebbe la diffusione della tecnologia, dei metodi di produzione e organizzazione della produzione, e la globalizzazione della produzione, etc. In altre parole, come riconosciuto tra gli altri da Gerschrenkron, Kuznetz, e in parte persino Marx, i paesi “secondari” avrebbero un vantaggio ad adottare le tecniche inventate da altri – l’industrializzazione guidata dallo stato in Germania e Unione Sovietica all’inizio del secolo scorso confermerebbe questo approccio.

Dall’era industriale all’era dei servizi e dell’high-tech
Se questa logica ha certamente dei meriti nello spiegare il processo di industrializzazione e gli alti tassi di crescita registrati dalla Germania tra il 1870 e il 1941, dall’Unione Sovietica dal 1929 al 1941, e ancora dal Giappone, dalla Korea, e da Taiwan nel secondo dopoguerra, è tutt’altro che scontato che essa spieghi lo sviluppo economico anche nell’era dei servizi e dell’hi-tech, soprattutto per via del fatto che il valore aggiunto nel contesto attuale viene principalmente dal capitale umano.

Vi sono più ragioni per credere che copiare le tecniche, le innovazioni e in particolare il sistema di produzione nel 1930 o nel 1960 fosse più facile e permettesse migliori risultati che che nel 2012. Copiare una Ford Model T richiedeva relativamente pochi passi (la creazione di un mecchanismo di produzione standardizzato e degli operai poco specializzati impegnati in mansioni di routine). Al contrario, copiare i servizi offerti da aziende di consulenza, di marketing, o di software e ancora di più copiare beni come l’iPod, l’iPhone o il BlackBerry è molto più complicato e, probabilmente, produce risultati comparativamente inferiori.

Allora le barriere all’ingresso erano rappresentate dalla necessità di alti capitali iniziali; oggi le barriere all’ingresso sono rappresentate dalla necessità di capitale umano, branding, flessibilità nell’organizzazione,  creatività nel problem-solving, e soprattutto curve di apprendimento molto ripide. Qui si trova la differenza centrale: mentre all’inizio del secolo scorso uno stato poteva sovvenire alla necessità di alti capitali trasformandosi direttamente in attore economico, oggi esso non ha tale capacità di manovra per quanto riguarda il capitale umano, la creatività, e questi altri fattori.

Certamente un governo può favorire la creatività promuovendo un sistema educativo adatto, ma questo è un processo lungo, anzi lunghissimo che si scontra con una serie di ostacoli che lo rendono di difficile o limitata applicazione.

Analogamente, un governo può spingere le proprie imprese ad adottare un’organizzazione flessibile, a sviluppare un brand solido, etc. Ma, anche in questo caso, l’attività dell’amministrazione pubblica è limitata – e, non meno importante, richiede quelle capacità che generalmente non sono tipiche delle burocrazia (apertura, creatività, flessibilità…).

Ciò non significa, ovviamente, che gli stati abbiano le mani completamente legate. Ma l’implicazione è ovvia: nel 1930, per favorire l’industrializzazione sovietica, il governo centrale dovette raccogliere le risorse necessarie (spremendo i contadini) e investirle nel settore industriale (indipendentemente dall’efficienza di tale misure). Oggi, un approccio di questo genere non è più sufficiente.

A ciò si aggiunge un ultimo aspetto, non meno importante. Per quanto molti abbiano guardato alla globalizzazione come un fenomeno che automaticamente permette il trasferimento di tecnologia, specie tramite gli investimenti diretti esteri, è bene guardare con più attenzione, perché ciò non è necessariamente vero. Come spiegato in un recente saggio di Michael Beckley sulla Cina sembra infatti che, per quanto riguarda gli investimenti americani nel colosso asiatico, il trasferimento di tecnologia sia assai limitato.

Innovazione ed emulazione militare 
Un altro importante cambiamento che deve essere registrato riguarda il campo militare. Per via del nostro interesse verso questioni strategiche, questo è anche il campo più importante nell’affrontare il dibattito sul declino relativo degli Stati Uniti e della crescita di nuove potenze.

La letteratura esistente tende ad assumere che la tecnologia si diffonda rapidamente, e che così facendo porti all’eliminazione del gap militare tra gli Stati. Se gli Stati Uniti sviluppano un’arma o un sistema d’arma estremamente efficace che garantisce loro un vantaggio strategico, operativo o tattico sugli altri, ci sarebbe da aspettarsi che gli altri Stati si appresteranno a copiare questa invenzione e ad adottarla. Alcuni lavori hanno sottolineato le resistenze di tipo culturale, istituzionale o organizzativo all’adozione di innovazioni militari. Aspetti ignorati, invece, sono le curve di apprendimento nella produzione dell’innovazione e i ritorni di scala e di scopo dell’innovazione stessa. In altre parole, gli studiosi di questioni militari hanno generalmente sottostimato l’importanza della capacità industriale di un paese.

Questo è però un aspetto centrale. Negli ultimi 15 anni la Cina ha lanciato un programma di modernizzazinoe della sua marina, che – secondo un rapporto del Congressional Research Service – va analizzato perché potrebbe portare ad un cambiamento nei rapporti di potere nello stretto di Taiwan e forse addirittura nel Pacifico. Per quanto questo rischio sia inevitabilmente possibile, sembra che ci sia da aspettare ancora un po’ prima che ciò accada. Secondo Danger Room, c’è poco da essere spaventati. I sottomarini cinesi sono ancora talmente rumorosi che sono relativamente facili da rintracciare. Per quanto riguarda la porta aerei, essa sarebbe “un sacco di immondizia” galleggiante… Insomma, per il momento la crescita economica cinese non sembra essersi tradotta in una minaccia militare per la sicurezza americana o dei suoi alleati.

Certamente le cose possono cambiare, e sicuramente cambieranno. Ma qui sta il punto. Se i sottomarini cinesi hanno una tecnologia che è paragonabile a quella degli anni ’80, a meno di non voler pensare che la tecnologia della Marina americana venga bloccata da un’asteroide, non sarà facile per la Cina ridurre il gap tecnologico esistente – soprattutto per via delle ripide curve di apprendimento e dei crescenti ritorni di scala del settore, che garantiscono un vantaggio al “first mover”.

Conclusioni – “Unipolarity is here to stay”
In questo articolo non abbiamo affrontato molti aspetti centrali del dibattito sul declino americano. Ad esempio, non abbiamo discusso l’egemonia del dollaro come valuta di scambio e riserva internazionale di valore – specialmente nei periodi di panico. Non abbiamo parlato del “brain drain” per molti paesi in via di sviluppo (prima di tutto Cina e India) e soprattutto del “brain gain“, ovvero l’acquisizione a costo zero di forza lavoro altamente qualificata per gli Stati Uniti. Analogamente, non abbiamo parlato dei fenomeni migratori più in generale e di come questi garantiscano agli Stati Uniti forza lavoro per quei compiti, primo fra tutti il servizio militare, che una società sviluppata diventa sempre meno predisposta a svolgere. E non abbiamo parlato di molti altri fenomeni che sembrano rafforzare, piuttosto che diminuire, il potere americano (la globalizzazione, le organizzazioni internazionali, il crescente ruolo della finanza, etc.)

Anche ignorando questi aspetti – che però giocano un ruolo centrale – possiamo riprendere l’aneddoto usato da Bruce Russett per rispondere al dibattito sul declino americano negli anni ottanta. Mark Twain un giorno trovò il suo necrologio su un giornale locale, al quale inviò una semplice nota: “The reports of my death have been greatly exaggerated.” Così, forse, è anche per l’egemonia americana. Un giorno verrà sicuramente al suo termine, ma è ancora presto per dire quando. E in quel caso, è più probabile che siano fattori squisitamente domestici piuttosto che internazionali a determinare questo epilogo.


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