Pochi risparmi dalla difesa

di Andrea Gilli –  tratto da LaVoce.info

Nel dibattito sulla manovra Monti non sono mancate le voci che hanno chiesto di compensare una spesa sociale inalterata con riduzioni per quella militare. Che però è pari a circa lo 0,50 per cento del Pil, se depurata di stipendi e pensioni. Eventuali tagli ai programmi d’armamento produrrebbero risparmi limitati. Anzi potrebbero avere forti conseguenze negative, considerato il ruolo dell’industria italiana in questo settore. Perché il nostro export militare significa comunque posti di lavoro, imposte e nuovi investimenti in ricerca.

Nella discussione seguita alla presentazione della manovra finanziaria del governo Monti, da più parti si è chiesta una riduzione della nostra spesa militare così da non dover intaccare eccessivamente la spesa sociale. [1] Non solo una misura simile sarebbe insufficiente, ma potrebbe avere effetti controproducenti che pochi computano nel calcolo. [2]

Quanto e come spendiamo?
Partiamo dai dati. La nostra spesa militare è poco inferiore alla media europea ma è nettamente inferiore a quella dei nostri alleati di riferimento: l’1,2%[3] contro l’1,3% della Germania (e della media UE), l’1,7% della Francia e il 2,7% del Regno Unito.[4]

Il dato più interessante riguarda però l’allocazione delle risorse all’interno del Ministero della Difesa. La Difesa ha quattro voci di spesa principali: esercizio, personale, missioni e investimenti. Il personale assorbe tra il 65% e il 75% del bilancio totale.[5] Depurata dalla componente “personale” la spesa militare italiana è quindi pari a circa lo 0,50% del Pil.[6] La domanda è quindi d’obbligo: qualcuno pensa davvero di ripagare il debito pubblico (120% del Pil) con queste risorse (0,50%)?

Tagliare non sarebbe comunque possibile?

Delle tre voci di spesa restanti, due possono difficilmente essere toccate: costi d’esercizio (addestramento, etc.), e missioni internazionali. Una volta invocato, infatti, il multilateralismo va anche pagato (missioni ONU, EU e NATO). Inoltre, insieme queste voci non arrivano ai 3 miliardi di euro.

L’ultima voce (investimenti) riguarda la costruzione dei famosi caccia-bombardieri, i sottomarini, le frigate, etc.[7] E’ su questa voce che si alzano le richieste di tagli. Ragioniamo insieme.

In primo luogo, i programmi militari sono pluriennali. Questi durano circa 40 anni. Una frigata, per esempio, richiede 10 anni per la fase di progettazione, ricerca e sviluppo e 2 o 3 anni per la produzione e sarà poi in servizio per 25 o 30 anni. Il costo totale va quindi spalmato su tutti questi esercizi. Pertanto, anche un programma costoso come l’ F-35/Lightning II Joint Strike Fighter (13 miliardi di euro totali) contribuisce a regime per (soli) 325 milioni di euro annui (non attualizzati) se spalmato su tutta la sua durata (40 anni).

C’è un secondo elemento. I costi più importanti di un programa vengono sostenuti nella fase iniziale (ricerca, sviluppo e test). Tranne Forza NEC, l’Italia non ha programmi recenti. Quindi i costi iniziali dei nostri programmi sono già stati pagati. Di conseguenza i risparmi possibili sono ancora più limitati. Assumiamo di cancellare oggi l’intero programma F-35. Assumiamo anche di poter recuperare il 70% del costo totale (previsione molto generosa). Significa, a regime, risparmi annui per 227 (325*0.7) milioni di euro (non attualizzati) fino al 2035. Qualcuno pensa davvero di salvare l’Italia con queste cifre?

Non è tutto. Per via delle sue economie di scala e delle sue ripide curve di apprendimento, il mercato degli armamenti è un oligopolio internazionale. Essere tra gli oligopolisti significa avere accesso ad extra-profitti dall’estero. Può sorprendere molti, ma l’Italia è nel club degli oligopolisti.[8] Il suo export militare significa posti di lavoro, imposte, e nuovi investimenti in ricerca in Italia.

Poiché con gli acquisti nazionali contribuiamo a finanziare la ricerca, le economie di scala e l’apprendimento tecnologico e industriale, se tagliamo i nostri programmi rischiamo di compromettere la nostra posizione internazionale, con conseguenze nefaste su export e quindi Pil, occupazione e imposte (future). Per fare un esempio, nel 2009 l’export militare italiano ha sfiorato i 5 miliardi di euro. Alternativamente, si pensi di nuovo all’F-35. L’Italia spenderà 13 miliardi di euro per 131 velivoli. Questa è solo una parte della storia. Facendo parte del consorzio produttore (cosa resa possibile dalle nostre competenze industriali), l’Italia parteciperà alla produzione di un programma del valore di 300 miliardi di dollari, per circa 3.000 aerei.[9] Non sto dicendo che questa è la migliore allocazione possibile delle nostre risorse. Ma i calcoli vanno fatti fino in fondo. Se tagliamo l’F-35, quanto export presente e futuro perdiamo? E con quali conseguenze sul Pil e sulle entrate fiscali?

Solo risparmi limitati

In conclusione, uno scambio di tagli tra spesa sociale e militare non è in grado di produrre i risparmi necessari. Ciò è dovuto al fatto che la nostra spesa militare è troppo esigua ed è sbilanciata su pensioni e stipendi.

Allo stesso modo, degli eventuali tagli ai programmi d’armamento produrrebbero risparmi limitati che, dall’altra parte, potrebbero avere delle forti conseguenze negative a livello di reddito nazionale (riduzione dell’export) che a loro volta contribuirebbero a peggiorare, anzichè migliorare, la situazione economica del nostro Paese e del suo bilancio pubblico (meno introiti fiscali, etc.).

Ci vorrebbe un’analisi più approfondita per discutere la questione nel suo complesso. Il fatto che l’industria della difesa possa giocare un ruolo positivo a livello economico e industriale non significa infatti che questa vada sostenuta incondizionatamente,[10] o che tutti i programmi d’arma vadano accettati,[11] o ancora che non ci siano casi nei quali la spesa militare finisca nell’assistenzialismo.[12] Allo stesso modo, da decenni gli economisti discutono se la spesa militare abbia effetti moltiplicativi sul reddito o meno. Purtroppo per ragioni di spazio non posso approfondire questi aspetti. Per il momento, eliminiamo le illusioni. Se possibile, è giusto che la Difesa contribuisca al risanamento del Paese. Ma il suo contributo non può che essere minimo, quanto il suo bilancio.


[1] Si veda “Più tagli alla difesa meno al welfare: Sinistra e Idv all’attacco della manovra,” La Repubblica online, 6 dicembre 2011; Alessandro Giglioli, “Un’altra manovra è possible,” Piovono Rane, 7 dicembre 2011.

[2] Per ragioni di spazio, non discuto la ratio della spesa militare. Se assumiamo che il futuro sarà pacifico, allora è ovvia l’inutilità di questa spesa. Storicamente, però, tutte le aspettative di pace sono state disattese.

[3] Questa incertezza è dovuta al fatto che non tutto cosa rientra nel bilancio della Difesa è Difesa (Carabinieri in funzione di sicurezza interna) e non tutto ciò che non vi rientra non è Difesa (finanziamento armamenti tramite il Ministero per lo Sviluppo Economico). Si veda IISS, The Military Balance (London: IISS, 2011): 119; Alessandro Marrone, Economia e Industria della Difesa: Tabelle e Grafici (Roma: IAI, Aprile 2011): 5.

[4] Dati dell’IISS. Si noti che l’elevata spesa della Gran Bretagna è dovuta alla forte contrazione del Pil che il Paese ha registrato negli ultimi anni. Nell’ultimo decennio, la spesa in difesa del Paese si è sempre assestata intorno al 2%. La media europea è all’1,3%. Questo indicatore non è molto utile perché i Paesi più piccoli, non avendo adeguate economie di scala, tendono generalmente a spendere meno degli altri.

[5] Si veda Alessandro Marrone, op. cit., p. 17; Joachim Hofbauer et al., European Defense Trande: Budgets, Regulatory Frameworks and the Industrial Base. An Annotated Brief (Washington, DC: CSIS, May 2010): 4.

[6] Per arrivare a questo dato ho adottato la stima più conservatrice delle due per quanto riguarda la spesa per il personale (65%), e ho assunto che l’Italia spenda circa l’1,45% del Pil in difesa (valore dato dalla media tra i due valori estremi: 1% e 1,9%). La spesa per il personale del Ministero della Difesa rappresenta quindi circa lo 0,94% del Pil (65%*1,45%). Sottranendo questo dato alla spesa militare sul Pil si ottiene 0,51% (1,45%-0,94%).

[7] Marrone, op. cit., p. 19. La spesa in questo comparto ammonta a poco più di 5,1 mliardi di euro.

[8] Finmeccanica è attualmente l’ottava più grande azienda al mondo nel comparto difesa. Si veda, “Top 100 for 2010,” Defense News.

[9] Michele Nones, Giovanni Gasparini, Alessandro Marrone, “L’F-35 Joint Fight Striker e l’Europa,” Quaderni IAI, No. 31 (Autunno 2008).

[10] Eugene Gholz, “Eisenhower versus the Spin-off Story: Did the Rise of the Military-Industrial Complex Hurt or Help America’s Commercial Aircraft Industry,” Enterprise and Society, Vol. 12, No. 1 (2011): 46-95.

[11] Ivan Eland, “Reforming a Defense Industry Rife with Socialism, Industrial Policy, and Excessive Regulation,” Policy Analysis N. 421 (December 2001).

[12] Si veda Eugene Gholz and Harvey Sapolsky, “Restructuring the US Defense Industry,” International Security, Vol. 24, No. 3 (Winter 1999/2000): 5-51.


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