Non passi il podestà straniero

Il Cav. sceglie un disastro fatto in casa

di Mario Seminerio – Libertiamo

La divulgazione della lettera inviata dalla Banca centrale europea al governo italiano lo scorso 5 agosto, al culmine dell’attacco speculativo contro il nostro paese da parte di mercati che hanno preso finalmente coscienza di quanto è vulnerabile un paese che ha lo stock di debito al 120 per cento di Pil e non cresce da un quindicennio (incastonato in una unione valutaria che proprio non vuol saperne di diventare unione politica, economica e fiscale), ha evidenziato contenuti largamente attesi. Altrettanto scontato il fatto che il nostro esecutivo avrebbe disatteso quelle indicazioni operative.

Nella missiva, Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il passato ed il futuro della Bce, chiedono all’esecutivo di alzare il potenziale di crescita del paese attraverso la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, il ridisegno del sistema fiscale a sostegno della competitività delle imprese, il decentramento della contrattazione lavoristica, la modernizzazione delle regole che governano il mercato del lavoro su assunzioni e licenziamenti, l’introduzione di un sistema universalistico di sussidi di disoccupazione e di formazione permanente, funzionale a gestire riallocazioni tempestive di forza-lavoro verso i settori emergenti.

Come è finita, è noto: il governo, dopo innumerevoli ed invereconde giravolte, ha scelto la strada di una devastante stretta fiscale, compresa tra due terzi e quattro quinti della correzione pluriennale. Da quel momento il dibattito pubblico italiano, già ridicolmente caricaturale, è stato ulteriormente deformato lungo alcune direzioni. In primo luogo, nelle parole di Berlusconi, Bossi ed altri più o meno autorevoli esponenti di maggioranza ed esecutivo, è iniziato il mantra di un’azione “imposta dall’esterno”, nella perdurante assenza di dettagli sulla misteriosa missiva proveniente da Francoforte.

Questo dell’imposizione esterna è un grande classico italiano: lo stesso premier da anni lancia messaggi a Bruxelles per mettere mano “da remoto” alle pensioni del Belpaese, incurante di mostrarsi al mondo come esempio di governante pavido e vocato a comunicare ai sudditi solo buone notizie, nella migliore tradizione sudamericana. E pazienza che il ministro del Lavoro di questo stesso polifonico esecutivo ribadisca ad ogni occasione che il nostro sistema pensionistico è “il più equilibrato d’Europa” e che la riforma è già stata fatta, “senza neppure un’ora di sciopero”. Dall’altro lato del palcoscenico sul quale si rappresenta la farsa italiana abbiamo Umberto Bossi ed il suo ipercinetico dito medio. L’uomo che detesta l’Europa ma che di questi tempi va in giro sentenziando che occorre che la Bce “compri i nostri titoli di stato”, dimostrando con ciò di essere molto italiano, in termini di opportunismo ed ipocrisia al limite del parassitismo conclamato.

Nel frattempo, ci ritroviamo con una manovra demenziale, in cui gli aumenti di pressione fiscale ingessano a morte un paese già fermo, mentre si finge di dibattere su una “riforma del fisco” che è già pronta almeno dal 2003. Siamo stati facili profeti, quando tempo addietro abbiamo scritto che non ci sarebbe stata nessuna riforma del fisco ma solo ulteriori aumenti di pressione fiscale: è quanto avremo con l’entrata a regime dei tagli lineari sulle agevolazioni fiscali, già a partire da gennaio 2012, nella misura del 5 per cento. Perché l’alternativa a quei tagli lineari è una sola: l’eliminazione delle pensioni di anzianità ed il riordino (leggasi taglio) di quelle di invalidità/accompagnamento e di reversibilità. Che non accadrà.

Il secondo argomento dell’italica conversazione è la patrimoniale, per la quale si stanno scomodando soprattutto i banchieri, in attività ed in panchina. Abete, Modiano, Profumo: sono soprattutto loro ad offrire il petto alle pallottole dell’impopolarità, pur di salvare il paese dal triste destino a cui è avviato. Anche se le proposte non sono tutte equivalenti (Abete almeno enfatizza l’esigenza di un riordino della fiscalità, con una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota, funzionale e redistribuire il carico fiscale “dalle persone alle cose”, come sloganeggia da un ventennio Giulio Tremonti), l’impressione è che ci troviamo di fronte all’ennesima scorciatoia per rinviare la soluzione dei problemi, sulla spinta dell’ennesima emergenza. Oltre che a costruire nuovi rutilanti carriere politiche, di quelle che tanto piacciono al Pd, sempre alla ricerca di un banchiere nero, più che di un papa di medesimo colore.

Ed oggi eccoci qui, a discettare di dismissioni che mancano da vent’anni, salvo poi scoprire che i mercati sono depressi e non pare il momento migliore per vendere. Oppure invocare i soliti crediti d’imposta per le imprese, con la certezza che non ci sono i soldi. Quanto alle liberalizzazioni, parola ormai consunta dall’uso ed abuso, è sufficiente ricordare che il paese continua ad essere privo della legge annuale sulla concorrenza. Eppure non sarebbe difficile, basterebbe copoiaincollare tradurre in un testo dotato di senso logico ed operativo le prediche inutili di Antonio Catricalà.

Date queste desolanti premesse (un governo che non governa ma ottiene ogni volta un’esaltante fiducia che gli spalancherà le porte di una epica stagione di riforme, “soprattutto ora che non ci sono più Casini e Fini”), e mentre le case d’investimento stanno già uscendo con previsioni per il 2012 che prevedono una pesante recessione per il nostro paese, la “Tassa Berlusconi” (il differenziale di spread tra Italia e Spagna nei confronti della Germania) continua ad allargarsi. Il punto di rottura è sempre più vicino. La lista dei colpevoli di anti-italianità sembra sempre più simile ad un elenco telefonico. In cima al quale c’è un nome: Berlusconi Silvio.


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