Solo per Draghi la Grecia sta meglio dell’Italia del 1992

di Mario Seminerio – Linkiesta

Moody’s mette sotto osservazione i tre maggiori istituti di credito francesi (Bnp Paribas, Société Générale, Crédit Agricole). E anche se il futuro leader della Bce, pur di ribadire la continuità con Trichet, ha dichiarato che noi vent’anni fa stavamo messi peggio, presto l’Europa dovrà fare i conti con la realtà di Atene.

Mentre i ministri delle Finanze di Eurolandia mandano a vuoto l’ennesimo meeting decidendo l’abituale rinvio, Moody’s pone sotto osservazione con implicazioni negative per il rating le tre maggiori banche francesi (Bnp Paribas, Société Générale, Crédit Agricole), focalizzandosi sul “potenziale di inconsistenza tra l’impatto di un possibile default o ristrutturazione della Grecia e gli attuali livelli di rating”. Impatti rilevanti che deriverebbero, oltre che dal possesso diretto di titoli di stato greci, anche dalle controllate greche delle banche francesi. Analoga analisi verrà presto condotta su altre giurisdizioni nazionali. Moody’s ritiene improbabile, al momento, che la revisione porti a tagli di rating superiori ad un livello, con la eccezione di SocGen, che gode del sostegno sistemico dello stato francese.
Questo è il risveglio alla realtà delle agenzie di rating, che anticipano quello dei governi.

La Grecia arriverà a ristrutturare, ci saranno comunque minusvalenze rilevanti nei portafogli delle banche. Attendiamo quindi analoga azione sulle banche tedesche, che aprirà la strada alla presa di coscienza di quanto il minor valore della carta bancaria francese e tedesca incide sul portafoglio delle banche italiane e delle altre banche europee, a matrice.
Nel frattempo S&P osserva che, nel solo periodo gennaio-maggio di quest’anno, il sistema bancario greco ha perso quasi la metà dei depositi persi nell’intero 2010 (13 miliardi di euro contro 28). Non è chiaro se si tratti di fuga di capitali oppure di semplice cash burn, cioè delle famiglie che tentano di sopravvivere al calo del reddito causato dalla crisi attingendo ai propri risparmi. Comunque sia, all’evaporare del proprio passivo le banche greche hanno due alternative: liquidare in parallelo l’attivo, cioè richiedere il rientro dei prestiti, incravattando ulteriormente l’economia; oppure, in caso intendessero mantenere il livello di attivi, saranno costrette ad aumentare il ricorso al credito di ultima istanza della Bce, utilizzando carta governativa greca o proprie passavità, garantite dallo stato greco.

Immaginate che cosa accadrebbe se la Bce fosse conseguente con le proprie minacce di non accettare più in contropartita di propri finanziamenti carta greca. La verità è che il settore privato non intende accettare ristrutturazioni “spintanee” dei propri attivi sulla Grecia; l’obiettivo dei privati resta quello di portare a fisiologica scadenza i propri titoli ed incassarne il pieno valore nominale grazie ai fondi di Ue e FMI ed al supporto di liquidità della Bce, che di fatto è un sostegno di solvibilità (e come tale viola i trattati europei di divieto di monetizzazione del deficit pubblico, ma su questo Trichet chiude da sempre entrambi gli occhi, per realismo). L’alternativa è un default disordinato della Grecia, ed un effetto-contagio di vaste proporzioni sul sistema creditizio europeo.

Quello che tutti sanno, a Bruxelles, Francoforte e (soprattutto) Berlino, malgrado i tentativi di Angela Merkel e del suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, di coinvolgere i privati nell’allungamento della vita media del debito, nella speranza (meglio, nell’illusione) che la Grecia riesca ad uscire autonomamente dalla crisi.

In tutto ciò, colpisce la presa di posizione di Mario Draghi: il quale, per ribadire la continuità con la linea di Trichet (e della Bundesbank), cioè l’assoluta contrarietà a qualsiasi ipotesi di default della Grecia (che spazzerebbe via il capitale della Bce) ha ieri dichiarato, nel corso delle audizioni in Commissione Affari economici e monetari del Par­lamento Europeo, che la condizione dell’Italia del 1992 era peggiore di quella della Grecia di ora.

Difficile da credere, visto che l’Italia del 1992 (che pure dovette ricorrere ad una patrimoniale straordinaria per mano del governo di Giuliano Amato), poteva comunque contare su una base manifatturiera e di export ben più pesanti sull’economia del paese e, soprattutto, sulla uscita dal Sistema monetario europeo, che diede temporaneamente ossigeno alle nostre esportazioni, col contributo determinante della moderazione salariale derivante dagli accordi del 1993, che di fatto impedì che la svalutazione della lira producesse una spirale prezzi-salari.

La posizione di Draghi, in questo momento, è comprensibile. Ma la realtà rischia di essere il giudice più severo delle eurofinzioni messe in scena finora.


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