Draghi vola a Francoforte. Ma lascia a Roma un programma politico coi fiocchi

di Mario Seminerio – Libertiamo

Le ultime “considerazioni finali” di Mario Draghi in Banca d’Italia sono soprattutto l’ultima reiterazione di una serie di einaudiane “prediche inutili”, come lo stesso governatore ha ricordato:

«Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore»

A noi di inutile resta soprattutto l’impressione di alcuni entusiastici riflessi condizionati di un establishment ormai alle corde, ma non è quello il punto. Il punto è che quello di Draghi è un programma politico, e come tale dovrebbe essere accolto e raccolto dalla politica.

La pars destruens colpisce inevitabilmente l’azione dell’attuale esecutivo. Per Draghi,

«Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie; sarebbero difficilmente sostenibili nel medio periodo; penalizzerebbero le amministrazioni più virtuose. Una manovra cosiffatta inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia, fino a sottrarle circa due punti di Pil in tre anni»

Fare politica è compiere scelte. I tagli lineari sono l’antitesi del concetto di scelta e di guida politica. Passare da una logica di tagli lineari ad una valutazione di “missioni” dei capitoli di bilancio, rimuovendo la logica dell’allocazione di spesa in base al costo storico e passando al “budget a base zero” serve proprio a “fare politica”, l’esatto contrario di quanto abbiamo avuto in questi anni di ottimistica imbalsamazione.

Il “modello Italia”, nella sua negatività, ha già offerto, non solo in questa legislatura, il ruolo sacrificale della spesa in conto capitale sull’altare della quadratura dei conti di breve periodo. E quella effettivamente sborsata si caratterizza per un tasso di efficienza molto basso, minato da burocratismi e corruzione endemica. Per Draghi,

«L’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali Paesi europei. Incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costose che altrove. (…) E’ necessario recuperare efficienza nella spesa, anche per sfruttare appieno le risorse dei concessionari privati e quelle comunitarie, che non pesano sui conti pubblici. (…) Le opere da realizzare valgono 15 miliardi, i fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono spesi solo per il 15%, quelli non spesi ammontano a 23 miliardi. Accelerare tutti questi interventi darebbe un forte impulso all’attività economica»

Vero, già sentito più volte. Una profonda differenza filosofica rispetto al raffazzonato approccio tremontiano, che punta su crediti d’imposta “perché i soldi comunitari dobbiamo comunque spenderli”.

Altro punto della “eredità programmatica” di Draghi è quello del mercato del lavoro, che resta crudelmente duale:

«Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani»

Anche da questo versante, nulla è stato fatto dall’esecutivo, che ha preferito ricorrere a diversioni ideologiche come la riforma dell’apprendistato, che in realtà finirà con l’imporsi come ennesima figura contrattuale low cost prima che professionale, come si accinge ad esempio a chiedere l’Associazione bancaria italiana, in una corsa al ribasso che sfocerà nella definitiva implosione del modello italiano di aziende di servizi, quelle dove (ci viene ricordato ad ogni pié sospinto) l’apporto del singolo, per iniziativa e creatività, è imprescindibile per il conseguimento dell’eccellenza. Quanti alberi sono sacrificati sull’altare di un’ipocrita oligarchia da brochure.

Nel discorso di Draghi c’è poi anche un riferimento ai servizi pubblici locali, assai opportuno nell’imminenza di due referendum (quelli sull’acqua) che hanno assunto da subito tratti fortemente manipolativi dell’opinione pubblica:

«La concorrenza, radicata in molte parti dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specie quelli di pubblica utilità. La sfida della crescita non può essere affrontata solo dalle imprese e dai lavoratori direttamente esposti alla competizione internazionale, mentre rendite e vantaggi monopolistici in altri settori deprimono l’occupazione e minano la competitività complessiva del paese»

Chissà se lo sanno, i cittadini genuinamente preoccupati di morire di sete che si accingono a dire di si non all’acqua pubblica ma a rendite di posizione parassitarie ed a ripianamenti a pié di lista dei costi della politica, per opera della fiscalità generale.

Ultimo, almeno tra i temi toccati da Draghi che abbiamo scelto per questo programma politico così minimalmente fondamentale è quello della giustizia civile, che è alla base della tutela dei diritti di proprietà:

«L’efficienza della giustizia civile così come del sistema di istruzione valgono ciascuna un punto percentuale di pil. Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile»

dice il governatore, ricordando che il tempo medio dei processi ordinari di primo grado supera i 1.000 giorni e pone l’Italia alla posizione 157 su 183 nelle graduatorie della Banca Mondiale.

«L’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. (…) Stime di Bankitalia indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della giustizia civile può arrivare a un punto percentuale. Minor tasso di crescita del Pil fino a un punto percentuale può derivare anche, secondo l’Ocse, dal distacco del sistema educativo italiano rispetto alle migliori pratiche mondiali»

ricorda ancora Draghi, secondo il quale occorre “innalzare i livelli di apprendimento”, ridurre i divari interni al Paese anche nella scuola dell’obbligo, e creare maggiore concorrenza tra gli atenei. Chissà che direbbero i critici dei test Invalsi, visti piuttosto stolidamente come entità “gelminiana” da boicottare ad ogni costo.

Questa è l’eredità politica di Mario Draghi, fatta di buonsenso e senso della comunità. Riceverà innumerevoli lip services da parte dei soliti noti, in attesa del collasso finale di un paese che proprio non riesce a cogliere il senso di urgenza e di emergenza che ne caratterizza l’attuale fase storica, irretito da antichi e nuovi demagoghi e dalla loro “narrativa”.

Buon lavoro a Francoforte, dottor Draghi. Sentiremo la sua mancanza in un modo lacerante.


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