di Mario Seminerio – Libertiamo
Di Silvio Berlusconi conosciamo ormai da tempo i tic: la personalità egolatrica, la propensione a reinterpretare la realtà, eufemisticamente parlando. Possiamo affermare di conoscere altrettanto bene il carattere di Giulio Tremonti? Sappiamo che l’uomo ha una robusta vocazione ai grandi disegni storici, quelli da immortalare sulle lavagne in magniloquente simbiosi con gli Scalfari ed i Bertinotti. Tremonti è proteiforme, è quella tesi ed antitesi che un’era geologica addietro rimproverava alla sinistra di essere: è liberista ma anche colbertista, federalista ma anche centralista. Vede ovunque zavorre a carico del nostro paese, perché cresceremmo di più se avessimo il nucleare ma anche se non lo avessero (più) gli altri.
In contesti più liberi e meno culturalmente arretrati del nostro, Tremonti sarebbe liquidato per quello che è: un signore affetto da teleologismo demiurgico ma dalla scarsa o nulla attitudine alla comprensione della realtà. Qui, invece, dobbiamo accontentarci di leggere che stiamo mobilitandoci per “salvare” la Parmalat ed i suoi 1,4 miliardi di euro di liquidità disponibile. Orwell era un esangue dilettante, a confronto.
Ancora una volta, l’aria di Cernobbio sembra stimolare la potente visione metastorica tremontiana:
«In questo momento, vedendo come è cambiato oggi il mondo, sarebbe meglio avere l’Iri e la vecchia Mediobanca»,
ha dichiarato il ministro al workshop Ambrosetti. Che Tremonti abbia una robusta fascinazione per tutto quello che è francese, lo sappiamo almeno dai tempi dei prefetti messi a guardia dell’erogazione del credito. Come da tradizione, tutto finì in una bolla di sapone, ma almeno servì all’ordoliberalista di Sondrio per marcare il territorio rispetto alla Banca d’Italia. Un po’ come quando Mario Draghi tesseva l’elogio del modello tedesco, venendo accusato di banalità da quello stesso Tremonti che non perdeva occasione per magnificare il mitologico modello renano. Anche in questo Tremonti è molto “francese”: vuole la solennità dell’ultima parola anche sui luoghi comuni.
Il vecchio Iri e la vecchia Mediobanca, si diceva. Perché servono dei campioni nazionali, e pure di dimensioni considerevoli:
«In questo momento la competizione è tra giganti. Noi, invece, continuiamo a fare gli spezzatini. Questa è una riflessione che tutti dobbiamo fare»
Tutto avremmo pensato di sentire, in questo disgraziato paese, ma l’elogio dell’Iri va effettivamente ben oltre la più fervida fantasia. Stiamo parlando di innumerevoli success stories, come noto. Dalla siderurgia alla tenuta di Maccarese, passando per l’Alfasud e le utilities monopoliste di telefonia ed autostrade. E poi c’erano le banche. Quelle di interesse nazionale controllate dall’Iri e, nel più generale perimetro pubblico, gli istituti di credito come il Banco di Napoli. Formidabili, quegli anni. Il nostro paese faceva paura. Soprattutto a mercati ed istituzioni internazionali, che lo vedevano danzare sul ciglio del baratro, strafatto di debiti.
Questo è peraltro lo stesso Tremonti che, durante la Grande Recessione, si lamentava della scala dimensionale a suo giudizio eccessiva del nostro sistema bancario, tale da non riuscire a comprendere le esigenze delle nostre imprese, e che intonava lodi al “piccolo e locale è bello”, fino al punto da promuovere la creazione di una fantomatica Banca del Sud (che peraltro appare avere tempi di gestazione biblici), basata su un’inutile e fiscalmente distorsiva riduzione dei costi della raccolta, disinteressandosi dei reali motivi alla base dell’elevato costo del credito nelle regioni meridionali. Quanto alla Mediobanca di Enrico Cuccia, si tratta del centauro ove il pubblico metteva i soldi ed i privati il potere, secondo il noto principio cucciano per il quale “i voti non si contano, ma si pesano”. A bene vedere, esiste una linea di continuità assoluta tra ora ed allora. Stiamo sempre parlando di un capitalismo di debito e relazionale, fatto di scatole cinesi ed estrazione di benefici “privati” del tipo di quelli che nulla hanno a che vedere con lo sviluppo di un sistema paese ma più propriamente con quelle stesse forme di parassitismo oligarchico, economico e sociale, che ancora oggi piagano l’Italia.
Parliamo di spezzatini. Vogliamo evitarli, dice Tremonti. Nel caso di Parmalat, proseguendo in questa linea di condotta, sarà invece proprio ciò che otterremo. Lactalis possiede quasi il 30 per cento del capitale dell’azienda di Collecchio. I nuovi patrioti dell’italianità dovranno quindi rastrellarne una quota almeno equivalente, sapendo che al superamento della soglia del 30 per cento occorrerà lanciare un’Opa obbligatoria sulla totalità delle azioni. In quel caso, o Lactalis consegna la propria quota ai patrioti incassando una congrua plusvalenza, oppure prende corpo l’ipotesi dello spezzatino, magari non immediatamente ma in seguito a tentativi di gestione paritetica del tipo di quelli abortiti in Edison. E quindi, ministro Tremonti, che si diceva degli spezzatini?
Ma a parte queste reminiscenze di libera reinterpretazione di un passato che non vuole passare, nel futuro potrebbe esserci comunque un ampliamento del raggio d’intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Il sistema creditizio italiano soffre di insufficiente capitalizzazione, causata dalla crisi e dall’ormai cronica incapacità del paese a crescere. Basilea III è alle porte. Le fondazioni sono in affanno ma non intendono mollare la presa dal controllo delle banche. La Cassa (partecipata al 30 per cento dalle fondazioni stesse), potrebbe quindi essere arruolata per la ricapitalizzazione prossima ventura del sistema bancario. Avremmo la pubblicizzazione surrettizia del mercato del credito del nostro paese e torneremmo effettivamente ai tempi dell’Iri, per la soddisfazione di Tremonti. Italia, un paese convintamente proiettato nel passato.
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