Ora anche la Bce avverte: il debito italiano preoccupa

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Suscita un amaro sorriso vedere il rilievo (in termini relativi, data l’attualità di queste squallide giornate italiane) col quale i giornali hanno accolto il bollettino mensile della Banca centrale europea, nel quale si constata che a dicembre e ad inizio gennaio si sono verificate tensioni sul debito sovrano di Belgio, Spagna e Italia. E’ surreale leggere titoli del tipo “la crisi non è finita”, forse perché il nostro paese è avvolto da una nuvola rosa di ottimismo mediatico che tende a esaltare le variazioni tendenziali di produzione industriale dimenticandosi di osservare che la base di partenza si è ristretta in modo superiore a quello di altri paesi, con i famosi cento trimestri di produzione industriale perduti dall’inizio della recessione, secondo le stime di alcuni ricercatori della Banca d’Italia.

Ma questi sono tecnicismi, finirebbero con l’essere affogati nel trionfalismo anche se non ci trovassimo di fronte all’imperativo di diffondere ottimismo. L’aumento dei rendimenti richiesti sul debito spagnolo, belga ed italiano è indicativo di quel rischio di contagio che nelle scorse settimane ha fatto segnare un brusco rialzo, mandando in frantumi tutta la cocciuta narrativa di un’Italia messa meglio di altri. E se è vero che, rispetto alle ultime convulsioni dei mercati, rendimenti e differenziali contro la Germania sono rientrati, è altresì vero che l’andamento di tali grandezze mostra per il nostro paese un profilo inequivocabilmente ascendente dalla primavera dello scorso anno.

La conferma dell’assai poco oscuro male italiano riecheggia anche nel bollettino mensile della Banca d’Italia di gennaio, dove sono presentate le ultime previsioni della nostra banca centrale, e nelle quali non c’è nulla di rassicurante. Da esso apprendiamo, ad esempio, che solo alla fine del 2012 il nostro Pil avrà recuperato circa la metà della perdita subita nel corso della recessione (pari a quasi sette punti percentuali). Ricordate che la recessione italiana è iniziata nel 2008, quando fummo l’unico paese, col Giappone, a far segnare una contrazione del Pil (pari all’1 per cento) e proseguita nel 2009, in compagnia di tutti gli altri paesi sviluppati, in misura superiore a 5 punti percentuali. Nel 2010, mentre la Germania realizzava un rimbalzo da libro di testo guidato dalla manifattura, il “secondo paese manifatturiero d’Europa” (come i nostri ottimisti domestici non smettono di ricordarci) cresceva a passo di lumaca, evidenziando in parallelo alla ripresa delle esportazioni anche un mini-boom delle importazioni, che pare suggerire una progressiva erosione di competitività della filiera domestica.

Non solo: le disastrose condizioni del nostro mercato del lavoro (anche qui con buona pace della vuvuzela sul tasso di disoccupazione “inferiore alla media Ue”) stanno frenando lo sviluppo dei consumi ed incentivando forme di risparmio precauzionale nelle famiglie, che è quanto accade nei momenti di maggiore incertezza che alimenta la sfiducia. Se a quanto già premesso (deterioramento del saldo di bilancia commerciale, andamento stagnante dei consumi delle famiglie) si aggiunge il fatto che la conclamata crisi fiscale del nostro paese congela anche i consumi pubblici, non c’è modo di intravedere quale possa essere il motore della nostra fantomatica ripresa. L’impressione è che il paese stia subendo un progressivo restringimento della propria base produttiva, nella più completa ignavia del governo, che continua a parlare di non meglio identificate riforme che semplicemente non esistono (vedi la costruzione barocca di un federalismo fiscale che rischia di produrre forte volatilità in un gettito locale che resta in misura decisiva derivato dal centro) o ad intestarsi l’agevolazione di iniziative di soggetti imprenditoriali che non hanno specifica visione sistemica del paese (il piano Marchionne per il gruppo Fiat).

Dato questo scenario, che resta quello di un paese che ha un Pil potenziale non molto distante dall’1 per cento, ogni stormir di fronde nella eurocrisi di debito ci riporta in prima linea tra i sospettabili di contagio, producendo le condizioni per una profezia che si auto-avvera. I mercati non si fidano della nostra tenuta, i rendimenti richiesti sul nostro debito aumentano, il più oneroso servizio del debito causa scostamenti dei conti pubblici che inducono timori per la nostra tenuta, ed il cerchio si chiude.

Le fragilità strutturali della nostra economia, che erano preesistenti alla Grande Recessione, si sono ulteriormente accentuate. Ma di esse si trova sempre meno traccia nel discorso pubblico.


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