Federalismo, la scatola vuota

di Mario Seminerio – Libertiamo

In un editoriale su la Stampa, Luca Ricolfi spiega in modo impeccabile perché stiamo dibattendo sul nulla, riguardo il federalismo. Come in un gioco di specchi, il governo procede speditamente ad approvare decreti delegati che rimandano a passaggi successivi. Ricolfi cita il caso della fiscalità municipale, rispetto alla quale manca la quantificazione fondamentale relativa alla spesa attivabile da ogni comune, e quella sulla pressione fiscale locale, cioè su quanto la municipalità andrà inizialmente a richiedere ai cittadini. Questi sono i due pilastri sui quali poggia il celeberrimo “potere di spesa e di presa” di cui parla il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.

L’intera struttura è basata sul concetto di costi standard, da applicare ad ogni attività di produzione di servizi della pubblica amministrazione, diretta ed indiretta. Nell’attesa che tali mattoncini vengano quantificati, Ricolfi osserva che proprio dal concetto di costo standard discende un nodo tuttora irrisolto: quello della perequazione. Per comprendere il concetto è utile cedere la parola a Ricolfi stesso:

«E’ ragionevole che i territori più poveri, avendo un gettito potenziale minore, ricevano una sorta di contributo di solidarietà da un fondo perequativo, alimentato dal gettito dei territori più ricchi. Ma non è mai stato chiarito in modo esplicito se la perequazione dovrà colmare la capacità fiscale mancante, dovuta al fatto che il territorio debole ha redditi più bassi, o dovrà colmare invece il gettito mancante, che spesso dipende anche, in misura tutt’altro che trascurabile, dalla maggiore evasione fiscale.

Esempio: il comune X ha un fabbisogno standard di 100, una capacità fiscale di 70, un gettito di 40 (perché l’evasione fiscale è molto alta). Il fondo perequativo gli assegna solo 30 (100-70=30) o gli assegna 60 (100-40=60) ? Nel primo caso si crea un incentivo a combattere l’evasione fiscale, nel secondo caso l’evasione fiscale è premiata. Il primo meccanismo è virtuoso, ma difficile da mettere a punto perché presuppone la conoscenza della capacità fiscale di un territorio relativamente a uno specifico gruppo di imposte (quelle immobiliari, nel caso dei comuni). Il secondo meccanismo è vizioso, ma facile da applicare perché il gettito, a differenza della capacità fiscale, è perfettamente noto»

Comprenderete la difficoltà insita nella definizione della grandezza definita “capacità fiscale”, l’unica che può fare la differenza tra un federalismo virtuoso ed epocale, potenzialmente in grado di risanare la finanza pubblica italiana, e la banale certificazione dell’esistente fornita dal dato del gettito. Se prevalesse quest’ultima impostazione (o si raggiungesse un compromesso attraverso una soluzione ibrida), sarebbe perfettamente inutile procedere con una riforma che semplicemente non sarebbe tale.

La seconda area critica identificata da Ricolfi è il problema della “chiusura”, cioè del differenziale tra entrate e spese dell’ente locale, dopo aver applicato gli aggiustamenti perequativi. Serve una legge-tagliola, secondo Ricolfi (e secondo noi, si parva licet), cioè inemendabile ed ineludibile, che disponga che siano i cittadini a ripianare l’eventuale disavanzo, con una tassa aggiuntiva. Simmetricamente, in caso di avanzo di gestione, tale legge darebbe facoltà al governo dell’ente locale di scegliere la destinazione del surplus: emissione di un assegno al contribuente oppure costituzione di un fondo di stabilizzazione ciclica (quello che gli anglosassoni chiamano “Rainy Days Fund“). In questo modo gli elettori si avvicinerebbero considerevolmente agli eletti, e potrebbero anche votare su temi non sterilmente “ideologici”, quale ad esempio la destinazione del surplus di bilancio locale.

Peccato che, aprendo gli occhi sulla realtà, nulla di ciò sia ancora stato apprestato dal governo. Si prosegue con i proclami e gli eventi solenni di leggi-delega prive di numeri e metodi, ognuna delle quali rinvia alla successiva. Solo una domanda: questa situazione è imputabile ai “traditori” che hanno lasciato il Pdl o è figlia della spiccata propensione all’illusionismo che pare caratterizzare questo governo e questa maggioranza?


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