Non basta aggiustare i conti pubblici. Occorre ‘fare politica’ per la crescita

di Mario Seminerio – Libertiamo

Le fortissime turbolenze a cui è sottoposta la moneta unica europea sono destinate a rilanciare il dibattito, mai realmente sopito nel nostro paese, sulla utilità della partecipazione all’euro. I nostalgici delle svalutazioni competitive hanno trovato nuovo fiato nel dramma della Grecia, impossibilitata a rilanciare la propria crescita attraverso la leva del cambio e condannata a passare attraverso una “svalutazione interna” che altro non è che una durissima deflazione di prezzi e salari. Sappiamo che quella dell’euro non è un’area valutaria ottimale, ossia non possiede i meccanismi di stabilizzazione che consentono di assorbire gli shock asimmetrici che colpiscono propri membri.

Di fatto, Eurolandia appare in questi mesi sempre più simile ad una “semplice” unione valutaria: un accordo di cambio irrevocabilmente fisso entro il quale si accumulano squilibri macroeconomici destinati a deflagrare, senza alcun coordinamento fiscale ma al contrario con un geloso nazionalismo delle politiche di bilancio. L’ingresso nell’euro ha abbattuto e livellato i tassi d’interesse nominali, stimolando la crescita. Ma il tasso d’interesse unico, in presenza di tassi d’inflazione differenziati e di insufficiente grado di apertura alla competizione (soprattutto nel settore dei beni non esposti alla concorrenza internazionale), ha prodotto nei singoli paesi tassi reali fortemente differenziati. Emblematico è il caso di Spagna, Portogallo e Grecia, che hanno visto tassi reali negativi che hanno stimolato i settori dell’economia ad essi più sensibili, quali costruzioni e credito al consumo. La bassa concorrenza ha poi impedito lo sviluppo della produttività, e le dinamiche retributive del settore pubblico hanno fatto il resto. Il risultato: costi del lavoro per unità di prodotto in forte aumento e marcata divergenza rispetto al paese-guida dell’euro, la Germania. Oggi, quegli squilibri macroeconomici sono al punto di rottura del sistema. Come uscirne, e quale è la posizione del nostro paese in questo contesto?

Non sappiamo se il punto di non ritorno è già stato oltrepassato. Quello che sappiamo è che le professioni di ottimismo sull’Italia che “ne uscirà meglio di altri” non solo si sono dimostrate del tutto fuori luogo, ma ci hanno fatto perdere due anni di legislatura, discutendo del nulla. Il nostro stock di debito ci “condanna” a crescere perché ogni aumento del suo costo, per ripresa congiunturale o per aumento del nostro premio al rischio (come avvenuto in queste settimane di contagio greco) rischia di costarci moltissimo in spesa per interessi. Abbiamo perso la polizza di assicurazione sui mercati, l’avanzo primario. La manovra prevista dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, per il 2011-2012 e contenuta nella Relazione Unificata di Economia e Finanza Pubblica poggia su stime di crescita che rischiano di essere eccessivamente ottimistiche, per un paese a bassa crescita della produttività e collocato in un’area economica che subirà un forte rallentamento nei prossimi mesi a causa dell’eurocrisi, come sembra confermare anche il forte ripiegamento dei mercati azionari, che scontano una crescente probabilità che la stretta fiscale dei paesi di Eurolandia causerà una ricaduta in recessione. La correzione dell’1,6 per cento di Pil e 25 miliardi di euro rischia quindi di essere del tutto insufficiente non solo per il percorso di rientro verso il 3 per cento del rapporto deficit-Pil. Non è un caso che esponenti della maggioranza abbiano deciso di rompere gli indugi (si fa per dire), lanciando l’abituale spin mediatico sulle aree che saranno assoggettate a tagli.

Formidabile, a questo riguardo, è stata l’eco prodotta dalla presa di posizione del ministro per la Semplificazione normativa, il leghista Roberto Calderoli, che ha annunciato tagli del 5 per cento agli emolumenti di parlamentari ed assimilati. In un paese che è ormai del tutto privo di memoria di breve termine, nessuno andrà a ricordare a Calderoli che lui ed il suo partito sono stati in prima fila quando il governo ha deciso, lo scorso gennaio, di rinviare al 2011 (in realtà al 2015, avendo appena votato in gran parte d’Italia per le amministrative) il taglio alle poltrone degli enti locali; che oggi Calderoli si appunta al petto, dicendo che però “è stato predisposto“, nell’abituale gioco delle riforme ritardate di una legislatura, e quindi destinate a non diventare realtà. E’ poi nota l’avversione della Lega al taglio delle province, che ha trovato copertura “contabile” nel ministro dell’Economia, che ha dichiarato (senza fornire cifre) che i risparmi di spesa sarebbero risibili. E ancora, in quanti ricordano che fu lo stesso premier, esattamente un anno fa, a minacciare (ma contro chi, esattamente?) una legge di iniziativa popolare per disboscare il parlamento, finita regolarmente nel dimenticatoio di un paese psicolabile? Questo solo per restare negli ambiti dei costi “ufficiali” della politica, quelli visibili, che già ci pongono all’avanguardia nel mondo occidentale. Stendiamo un pietoso velo sulla dinamica degli acquisti intermedi della pubblica amministrazione: stiamo solo ora cominciando ad avere uno spaccato di quel mondo, nel racconto dei suoi appaltatori.

Poi esiste “il” problema italiano, la non-crescita. Per il quale nulla si è fatto in questi due anni di legislatura (e nei quindici precedenti), preferendo esibire come trofei di caccia gli improbabili indicatori anticipatori dell’Ocse. Paradigmatico quanto accaduto la scorsa settimana, alla pubblicazione del dato di produzione industriale di marzo. Una flessione mensile dello 0,1 per cento, a fronte di attese per una crescita del’1 per cento. Ma, al solito, abbiamo sentito i soliti noti (menzione d’onore a Maurizio Sacconi, ora incontrastato capo-ottimista dopo l’uscita di Claudio Scajola) esibirsi nel “lancio dell’Ansa” sul dato annuale, in crescita del 6,4 per cento. Peccato che una crescita del 6,4 per cento partendo da una base devastata di quasi il 30 per cento a causa della crisi sia il nulla, e peccato aver omesso che il dato italiano di produzione industriale è stato fatto in misura preponderante dal settore auto al tempo degli incentivi, ora scaduti. Il governo nel frattempo si è anche cullato su altri improbabili e surreali allori, quali un tasso di disoccupazione inferiore alla media Ue. Peccato che il nostro tasso di attività sia di nove punti inferiore alla media dell’Eurozona, e questo tende a frenare l’ascesa del tasso ufficiale di disoccupazione. Inoltre, il vasto ricorso alla cassa integrazione tende a occultare situazioni di imprese decotte o comunque di organici sovradimensionati rispetto alla nuova fase congiunturale che viviamo, oltre a rappresentare uno strumento non inclusivo a tutela dei lavoratori ed un costante drenaggio di risorse di finanza pubblica.

Eppure, da due anni non facciamo che ascoltare il mantra: “l’Italia è messa meglio di altri, e ne uscirà meglio di altri”, con le sue varianti di una crisi che non c’è, e se c’è è quasi psicosomatica. Oggi qualcuno si è risvegliato ma noi lo diciamo da sempre: quando un grande debitore non cresce abbastanza, i suoi creditori si innervosiscono, e il rischio cresce. E l’Italia è il Grande Debitore di quella che a sua volta è diventata la Grande Debitrice, l’Unione europea. Non c’è nulla di più vendicativo della realtà, si direbbe.

Ma un Tremonti a guardia dei saldi di bilancio non basta, serve anche “far politica”, nella fattispecie servono anche riforme di struttura, e anche quello lo abbiamo ripetuto alla nausea, soprattutto la nostra. In luogo di pubblicare sul proprio portale istituzionale gli epici racconti di come il premier ha salvato nottetempo un intero continente, l’esecutivo dovrebbe convocare una sessione parlamentare permanente per lavorare su un nuovo contratto di lavoro a tutele crescenti ed inclusive, sulla liberalizzazione delle libere professioni (l’opposto della direzione perseguita sinora), su riforme organiche della pubblica amministrazione, che deve diventare “l’infrastruttura delle infrastrutture”, l’agevolatore della crescita e della produttività totale dei fattori, e non l’ammortizzatore sociale di ultima istanza come pensa ed immagina la Cgil, ancora così drammaticamente legata al passato da essere inidonea a partecipare al “salvataggio” del paese quanto e più di chi, nell’esecutivo, professa quotidianamente un ottimismo stucchevole ed autolesionistico.

Manovra da 25 miliardi? Ne serviranno di più. Pensate se questa cifra (frutto di risparmi permanenti e non di semplici rinvii di spesa) fosse stata messa in campo subito dopo il primo tempo della crisi, magari utilizzandola per ridurre la pressione fiscale ed affiancandola a riforme di sistema pro-crescita. Ma non si vive di ipotesi, soprattutto in Italia, dove l’emergenza è il nostro destino, dalla breccia di Porta Pia ai giorni nostri. La sciagura è che non è per nulla certo che riforme vere potranno isolarci da un’eventuale ricaduta nel contagio, ma lo status quo continua a non essere un’opzione.


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