L’Italia come la Germania? Tremonti ha toccato il Fondo

di Mario Seminerio – Liberal Quotidiano

Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, commenta con soddisfazione quelle che definisce “le tabelle” del Fondo Monetario Internazionale, che paiono mostrare una non meglio precisata situazione del debito italiano “paragonabile a quella della Germania e migliore di quella degli Usa”. Che detto così non significa nulla, visto che lo stesso Tremonti da anni non perde occasione per ribadire che il nostro paese ha il terzo debito pubblico del pianeta ma non è la terza economia del pianeta. E quindi, come va decodificata questa notizia?

Prima di tentare una risposta, è utile contestualizzare la posizione macroeconomica del nostro paese riguardo la crescita, passata e stimata. Il nostro paese è reduce da due anni disastrosi. Nel 2008 siamo stati, tra le economie avanzate, quella con la peggiore performance, con una contrazione dell’1 per cento. La crisi globale non era ancora esplosa in tutta la sua virulenza ma noi riuscivamo ad essere già in recessione. Nel 2009 il nostro Pil si è contratto del 4,4 per cento, nettamente peggio della media dei paesi con i quali ci confrontiamo. Per il 2010 restiamo il paese con le minori prospettive di crescita, di recente ulteriormente ridimensionate sotto un già gracile 1 per cento, situazione che indurrà nuova pressione al rialzo sulla disoccupazione. Tornando al debito, in cosa saremmo “alla pari della Germania”? Nel senso che, posto un traguardo teorico dato dal raggiungimento entro un ventennio di un rapporto debito-Pil al 60 per cento (l’”altro” parametro di Maastricht, da sempre disapplicato e declassato al ruolo di obiettivo eternamente “tendenziale”), l’Italia necessiterebbe di conseguire, ogni anno per dieci anni, avanzi primari, pari al 4 per cento del Pil.

Ma nel 2009 abbiamo avuto un deficit primario pari allo 0,5 per cento del Pil: cioè le spese, esclusi gli interessi sul debito, hanno superato le entrate. Un avanzo primario pari al 4 per cento del Pil significa, a valori correnti, circa 60 miliardi di euro annui. Da dove usciranno, se il paese continua ad avere una crescita prossima allo zero o comunque inferiore all’1 per cento? Altri paesi, quali Stati Uniti e Regno Unito, necessiteranno di un avanzo primario in doppia cifra, a conferma della profondità del trauma fiscale subito. Ma un paese che riesca a tornare a crescere al 3-4 per cento annuo può riuscire in un’impresa apparentemente disperata, allo stesso modo in cui un paese che continua a non crescere vedrà allontanarsi un traguardo apparentemente alla propria portata.

Il governo, ed il responsabile della politica economica del nostro paese, tendono quindi a perpetuare questa sorta di schizofrenia per la quale le previsioni economiche, quando sfavorevoli, vengono liquidate come frutto di “stregonerie” degli economisti, mentre si tende a dare ampia rilevanza, soprattutto mediatica, ad esercizi intellettuali come questa simulazione del FMI di rientro dal debito oppure a vere e proprie “ombre sulle caverne” quale ad esempio il leading indicator dell’Ocse, che nei mesi scorsi è assurto a nuovo idolo della maggioranza, dopo aver segnalato un’espansione dei nostri livelli di attività che, a distanza di due trimestri, si è concretizzata solo in minima parte, come del resto metodologicamente previsto dalla stessa Ocse. Oggi, dopo aver previsto un rallentamento a sei-nove mesi, quell’indicatore è sparito dai radar e dalle prime pagine dei giornali.

La sensazione è che ci si continui ad appuntare al petto delle medaglie al “valore virtuale”, come surrogato di un intervento sulla realtà fatto di liberalizzazioni e riforme di struttura che invece questo esecutivo ha scelto di rinviare indefinitamente, per non intaccare la propria base di consenso, perpetuando la narrativa di un miglioramento della posizione relativa del nostro paese. Non siamo diventati come la Grecia semplicemente perché non avevamo, a differenza di Grecia, Irlanda e della stessa Spagna, un elevato indebitamento delle famiglie, e di conseguenza neppure un elevato deficit delle partite correnti. Allo stesso modo, era praticamente impossibile pensare ad una deliberata creazione di deficit, di stile keynesiano, perché il nostro paese era e resta vigilato speciale dai mercati, oltre che dalle agenzie di rating.

Per sottrarre il paese al declino, rappresentato dal minor tasso di crescita pro-capite del Pil in Occidente negli ultimi quindici anni, non basta magnificare ed intestarsi politicamente vincoli esterni ineludibili e quello che è un tratto culturale delle famiglie italiane, la propensione al risparmio. Che ha peraltro anche finalità precauzionali rispetto ad un welfare irrimediabilmente fallito. Servono incisive azioni riformatrici, basate ad esempio su una riforma fiscale come quella che lo stesso Tremonti vagheggiava nel 1994. Come lo stesso ministro ha detto, in occasione del recente convegno Confindustria di Parma, allora il governo era troppo avanti rispetto ai tempi. Oggi i tempi ci hanno raggiunti e sorpassati. Sarebbe utile evitare di farci doppiare.


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