La sanità americana era malata, ma non è detto che la ‘cura Obama’ funzioni

di Mario Seminerio – Libertiamo

La riforma della sanità statunitense è ormai prossima a diventare realtà. Il suo obiettivo strategico, ampliare il pool dei soggetti assicurati, verrà ottenuto attraverso l’obbligo di assicurazione con erogazione di sussidi alle famiglie che non possono permettersi di sottoscrivere una polizza. Resta il sistema di assicurazioni private, non essendo presente la discussa public option, tanto cara all’ala liberal dei Democratici. Secondo i sostenitori della riforma i premi dovrebbero scendere, in conseguenza proprio della riduzione della morbilità attesa nel pool degli assicurati (oggi gli uninsured sono soprattutto soggetti giovani ed in salute, che spesso non si assicurano a causa dei costi della copertura). Le assicurazioni non potranno più ricusare l’assicurato, spesso con artifici al limite della truffa, come la retrodatazione di patologie insorte successivamente alla stipula della polizza.

La riforma dovrebbe essere finanziata, tra le altre fonti di copertura, anche dalle penalità a cui saranno assoggettati i datori di lavoro con oltre 50 dipendenti che non offriranno copertura assicurativa. Il grosso della copertura verrà però soprattutto da nuove imposte, come la sovraimposta del 3,8 per cento sul reddito da investimento dei contribuenti che guadagnano più 200.000 dollari annui, se single, o 250.000 se coppie. Questa misura, tuttavia, non entrerà in vigore subito, ma solo dal 2013.

Come noto, i Repubblicani si oppongono radicalmente alla riforma, ma non siamo riusciti a trovare argomentazioni che non fossero l’abituale “perché no”, che caratterizza questo periodo della vita del GOP, ad ogni proposta di Obama. Nei mesi scorsi i Repubblicani hanno tentato, con alterne fortune, di mettersi alla testa dei Tea Parties, ma le tesi erano piuttosto sghembe: accuse di socialismo alla Casa Bianca ma anche cartelli di “Giù le mani dal Medicare”, cioè dalla principale forma di medicina socializzata e single payer oggi esistente negli Stati Uniti, figlia della riforma di Lyndon B.Johnson. Le contraddizioni non sono esclusiva della politica italiana, evidentemente.

Tra gli economisti di area GOP, spicca l’argomentazione “classica” di Greg N.Mankiw, docente ad Harvard e già a capo del Council of Economic Advisers nel primo mandato presidenziale di G.W.Bush. Per Mankiw, il sistema di sussidi a phase-out, cioè decrescenti al crescere del reddito imponibile, equivale ad un inasprimento dell’aliquota marginale, ed è quindi destinato ad esercitare un effetto depressivo (diremmo “europeo”) sull’offerta di lavoro. Altro economista contrario alla riforma è Jeffrey Miron, un noto libertario da sempre sostenitore della legalizzazione delle droghe. Ma anche l’argomentazione di Miron ci pare piuttosto fragile: la riforma, per l’economista libertario, finirà col soffocare l’innovazione, e danneggerà anche gli europei, che da sempre sarebbero beneficiari (in modo quasi parassitario, pare di leggere neppure troppo tra le righe) della ricerca americana su diagnostica e terapie. Una tesi piuttosto strana: negli Stati Uniti la spesa sanitaria è di circa il 15 per cento del Pil, all’incirca doppia dei sistemi socializzati europei e di quello canadese, e questa riforma non mira certo ad azzerare la redditività delle imprese sanitarie. Seguendo il ragionamento di Miron, dall’elevata redditività di ospedali e aziende farmaceutiche deriverebbe una sorta di sovrainvestimento in ricerca e sviluppo di cui beneficerebbe l’umanità intera, in vario grado ed intensità. L’eccezionalismo americano torna sotto nuove vesti, in definitiva.

La verità è che la sanità statunitense soffre di una sorta di iperinflazione, solo in parte derivante dall’eccellenza diagnostica e terapeutica. Gli assicurati sono pressoché isolati dagli esborsi, almeno in prima battuta, e questo determina una naturale tendenza alla sovra-medicalizzazione ed alla iper-prescrizione, da cui deriva anche, come effetto indotto dagli elevati utili così generati, la forte spinta agli investimenti in ricerca. Ma questa isolation dai costi sanitari è illusoria, perché si trasforma nel tempo in maggiori premi assicurativi, che finiscono con l’indurre le imprese a tagliare la copertura per i propri dipendenti. Questi ultimi diventano spesso degli uninsured proprio dopo aver perso la copertura aziendale e per l’onerosità dell’assicurazione individuale.

Il successo o il fallimento della riforma verterà soprattutto sulla sua capacità di piegare nel tempo l’inflazione sanitaria. Secondo Mankiw, si rischia una forma di controllo sui prezzi, destinata quindi a fallire miseramente, mentre nel campo opposto si sottolinea che la ridotta deducibilità fiscale (per i percettori di redditi elevati) delle franchigie e delle spese vive (out-of-pocket) sarebbero un primo importante passo verso il controllo dei costi. Per la stessa filosofia, la maggiore imposizione sulle polizze a maggiore copertura (le cosiddette “Cadillac”), che entrerà in vigore solo nel 2018, sarà un’accisa del 40 per cento sul valore dei premi che eccede una soglia minima (inizialmente fissata in 10.200 dollari per i single e 27.500 per le famiglie). L’importo esente dall’accisa sarà indicizzato all’inflazione più 1 punto percentuale. In pratica, se l’inflazione sanitaria non sarà sconfitta, molti assicurati scivoleranno fatalmente nel campo della tassazione, oppure dovranno progressivamente tagliare le tipologie di copertura, tornando al punto di partenza odierno. L’intera riforma ha un problematico impianto del tipo “spendi ora, tassa in futuro”: solo il tempo dirà se affosserà definitivamente i conti pubblici statunitensi o se sarà un non-evento. Ma possiamo trarre sin d’ora alcune constatazioni.

In primo luogo, è di tutta evidenza che la riforma è redistributiva: sarebbe sciocco negarlo. Da ciò discende la considerazione, intellettualmente onesta, di Greg Mankiw: qui sono in gioco sistemi di valori: l’eterno tradeoff tra eguaglianza ed efficienza, tra libertarismo e comunitarismo. Quindi, saranno gli elettori statunitensi a scegliere se vogliono diventare più “europei”, in termini di riduzione delle diseguaglianze. A noi pare che le considerazioni più condivisibili le abbia fatte un americano che lavora nella finanza, del cui sistema è spietato critico: Barry Ritholtz. La sanità statunitense è rotta, con buona pace dei sostenitori dello status quo. Piagata da un sistema d’incentivi perversi: una urgenza pediatrica trattata in pronto soccorso produce un costo di 8000 dollari, contro i 60 di una visita in studio dallo specialista, e questi costi si scaricano su tutto il sistema, rendendolo votato al fallimento. Inoltre, il sistema genera un eccesso di spesa senza significativi risultati in termini di aspettativa di vita. Conosciamo le obiezioni a quest’ultima osservazione: non è colpa della sanità ma di stili di vita e, in ultima analisi, di un modello finora accettato di diseguaglianza sociale. Ma ciò ci riporta a quanto sopra osservato: spetta agli americani scegliere il proprio posizionamento tra equità ed efficienza. Lo faranno già dal prossimo novembre, alle elezioni di midterm.

Nel frattempo, noi europei dovremmo tenere a mente che il nostro sistema valoriale resta significativamente differente da quello americano. Noi nelle costituzioni abbiamo il diritto alla salute, oltre oceano hanno quello alla felicità.


Scopri di più da Epistemes

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Scopri di più da Epistemes

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere