di Mario Seminerio – Liberal Quotidiano
La decisione di Fiat di chiudere entro l’anno l’impianto di Termini Imerese si scontra con la sostanziale assenza di alternative occupazionali che il disimpegno della casa torinese causerebbe al territorio. Sergio Marchionne ha ripetuto più volte che la chiusura non è negoziabile, vista la struttura di costo assolutamente non competitiva dell’impianto, causata anche dalla sua localizzazione. Questa decisione è economicamente razionale, vista dall’ottica dell’azienda, e ripropone il nodo strutturale di un settore automobilistico globale piagato dall’eccesso di capacità produttiva.
La resa dei conti era da tempo nell’aria, ma paradossalmente è stata posticipata dalla crisi, che ha spinto i governi a ricorrere ad un altro giro di incentivi settoriali, oltre ad alcune forme di moral suasion al limite del protezionismo, come la decisione francese di subordinare alcune tipologie di aiuti pubblici alla scelta di non delocalizzare. Fiat, in Italia, si è trovata ad avere impianti da tempo non competitivi e per interlocutore un governo privo di capacità di spesa. L’insufficiente infrastrutturazione di molte località del Mezzogiorno, ed altri più o meno noti oneri impropri impediscono di mantenere in vita impianti palesemente antieconomici. Il governo italiano si trova in difficoltà, perché non in grado di offrire a Fiat ciò che Fiat chiede, cioè un abbattimento dei costi di produzione. Al contempo, l’esecutivo è sottoposto a forti pressioni per il mantenimento dei livelli occupazionali. Ma mantenere l’occupazione sussidiandola finisce col distruggere risorse della collettività, come ampiamente dimostrato dalla storia della politica industriale del nostro paese. I governi italiani succedutisi in questi anni avrebbero dovuto negoziare con l’Unione europea la creazione di “zone franche” fiscali, dove abbattere significativamente la fiscalità per le iniziative imprenditoriali, offrendo in cambio se necessario anche parte dei fondi europei per lo sviluppo. In questo modo, ed in aggiunta al presidio di legalità del territorio, ad una giustizia civile e penale non proibitivamente penalizzanti per la tutela dei diritti di proprietà, si sarebbero poste le basi per un modello di sviluppo delle zone depresse del Mezzogiorno non dipendente dalla presenza della grande impresa. Purtroppo così non è stato.
Ma il caso Termini Imerese rischia di essere solo la punta di un iceberg fatto di diffuse situazioni di sofferenza nel mercato italiano del lavoro. Come purtroppo da più parti previsto, la ripresa sta avvenendo in sostanziale assenza di creazione di occupazione. Vi è inoltre motivo di ritenere che nel nostro paese l’erogazione della cassa integrazione stia sempre più coprendo situazioni di crisi aziendali non reversibili. Per questo motivo risulta difficile comprendere il mantra governativo sull’Italia “con il minor tasso di disoccupazione d’Europa”. Chi sostiene ciò, si ostina a non guardare al fenomeno della cassa integrazione come prodromo della disoccupazione, soprattutto nella fase attuale. Si confrontano grandezze non confrontabili su scala internazionale, si omette di osservare che l’Italia ha uno dei più bassi tassi di partecipazione alla forza-lavoro (o tasso di attività, come lo definisce l’Istat), e che tale tasso è in un trend decrescente, e ciò finisce col tenere artificiosamente basso il tradizionale tasso di disoccupazione.
Contestare tutti gli studi, siano essi realizzati da ricercatori della Banca d’Italia che dal Centro Studi di Confindustria, che tentano di definire un tasso di inoccupazione più realistico, rappresenta l’ennesimo tentativo di rompere il termometro per non vedere la temperatura del paziente. Per quanto tempo il governo continuerà ad erogare fondi per la cig, anche in situazioni in cui è palese che le aziende coinvolte non ce la faranno? Ecco perché, per affrontare una crisi come questa, che non è congiunturale ma è purtroppo strutturale, servono riforme altrettanto di struttura. Sul mercato del lavoro, con la creazione di un sussidio di disoccupazione universalistico, con la creazione del contratto “unico” a tutele crescenti nel tempo, con la liberalizzazione di mercati bloccati, come quelli delle professioni e dei servizi. Tutte misure che andavano prese in parallelo al manifestarsi degli effetti della crisi, e non annunciate per un fantomatico “dopo”. Oggi, l’impressione è che un risveglio piuttosto ruvido attenda il nostro paese, e le sue magnificate “non-riforme”.
Scopri di più da Epistemes
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.