di Mauro Gilli
Con le elezioni in Iran, si è tornato a parlare di un dilemma a cui l’Occidente si trova spesso di fronte: aiutare i popoli oppressi a liberarsi dai loro oppressori, oppure rimanere impassibili di fronte alla tragedia? Secondo Bernard Henry-Levy, l’Occidente avrebbe l’obbligo di prestare soccorso (Corriere della Sera, 16 giugno). Simili considerazioni sono state espresse nelle scorse settimane relativamente al popolo cinese, in concomitanza con il ventesimo anniversario della strage di Tienanmen. La questione, anche se è stata sollevata relativamente all’Iran o alla Cina, si presta a generalizzazioni e ad una discussione più ampia.
Il dovere dell’Occidente?
Secondo molti, l’Occidente non può rimanere a guardare. Dovrebbe intervenire, più o meno direttamente, a favore degli oppressi. Dovrebbe sacrificare i piccoli interessi di bottega, e schierarsi, senza se e senza ma, a favore di quelli che lottano per la democrazia, e contro i loro carnefici. Se c’è divergenza di vedute rispetto ai mezzi da utilizzare (alcuni sono a favore dell’uso della forza militare; altri propongono invece forme di boicottaggio più o meno generali; mentre altri ancora sono a favore di sanzioni “intelligenti”); relativamente agli obiettivi da conseguire esiste una convergenza assai ampia: abbattare i regimi e aiutare il seme della democrazia ad impiantarsi, anche dove le condizioni sono più sfavorevoli, pare essere un principio molto diffuso. Secondo i sostenitori di questa filosofia, l’Occidente ha infatti un dovere morale ad aiutare i popoli oppressi a realizzare le loro aspirazioni di libertà.
Purtroppo, le cose non sono così semplici come sembrano. I problemi di questa visione sono molteplici. Per ragioni di spazio, in questo articolo ci limiteremo a presentarne uno, a nostro avviso il più importante. I fattori che permettono la nascita e il mantenimento della democrazia sono interni ai paesi, non esterni. Pertanto, se le condizioni interne ad un paese non sono favorevoli, aiutare un popolo a instaurare un sistema politico democratico sarà inutile, perché questo non potrà sopravvivere, se non addirittura controproducente, in quanto potrebbe distruggere gli eventuali progressi conseguiti.
Come scrisse John Stuart Mill – un liberale vero, e non certamente un alfiere del realismo politico – se un popolo non riesce a conquistare la democrazia con le sue forze, allora significa che non riuscirà neanche a mantenerla, se questa dovesse essere instaurata con l’aiuto esterno (‘A Few Words on Non-Intervention’, 1859, in Dissertations and Discussions).
Ciò non significa abbracciare una visione etnocentrica o deterministica della storia. Il tempo è infatti una variabile assai importante, che molti sembrano dimenticare. Il fatto che l’Occidente abbia raggiunto una forma di democrazia accettabile solo nella seconda parte del ventesimo secolo vuole dire qualcosa. Evidentemente, per i quattrocento anni di storia moderna precedenti, la democrazia non era un traguardo possibile. E’ chiaro dunque che erano necessari determinati cambiamenti per il suo raggiungimento. Lo stesso è vero per i paesi ancora governati da regimi non democratici. Il fatto che questi popoli non siano ancora riusciti ad ottenere certi diritti, non significa che non ci riusciranno mai. Significa che fino ad oggi le condizioni interne non lo hanno permesso.
Le origini della democrazia
Storicamente, la democrazia è sorta là dove le condizioni interne (e non quelle esterne) ai paesi erano favorevoli. Salvo rari casi – Panama è probabilmente l’unico – il supporto esterno da parte di altri paesi non è stato sufficiente. Nei loro rispettivi Social Origins of Democracy and Dictatorship e Economic Origins of Democracy and Dictatorship, Barrington Moore, Daron Acemoglu e James Robinson hanno illustrato, con due metodologie completamente diverse, le origini domestiche dei regimi democratici e autocratici. Secondo questi illustri studiosi, determinante nella lotta per la democrazia sarebbero i rapporti di forza tra i vari gruppi interni ai Paesi. Là dove un gruppo (la popolazione) riesce a resistere ai tentativi oppressivi del governo, con maggiore probabilità quest’ultimo dovrà fare concessioni politiche ed economiche, fino appunto a garantire un sistema politico democratico (questa è anche la tesi di Charles Tilly, illustrata tra gli altri, nel suo Capital, Coerction and the European States AD 990-1992).
Ciò, ovviamente, non significa che fattori esterni ai paesi siano ininfluenti. L’aumento del commercio internazionale nel tardo medio-evo è, nell’analisi di Moore, il fattore scatenante di tutto il processo successivo. Questo aumento dei commerci rafforzò infatti le classi mercantili inglesi, creando così la base futura per la democrazia. Là dove una classe commerciale non esisteva – come in Russia, per esempio – questo effetto non si manifestò – di qui la ragione per cui la Russia non ebbe mai una sua “primavera”. In modo simile, nell’analisi di Acemoglu e Robinson, la globalizzazione economica rafforzerebbe le classi commerciali a scapito delle élites al potere, rendendo dunque le sorti della democrazia più rosee in Paesi ancora oppressi da una dittatura. Lo stesso è vero per il lavoro di Tilly, che si concentra sulla competizione tra Stati in Europa, e che dunque, anch’esso, non manca di prestare attenzione a fattori esterni ai paesi. Fattori esterni possono dunque contribuire, ma non sono sufficienti per la nascita della democrazia.
Il problema di sostenere politicamente i popoli oppressi (nel nostro caso quello iraniano), si manifesta nel fatto che, anche se questi ne venissero rafforzati rispetto alle élite al potere, questo supporto dovrebbe essere poi mantenuto nel tempo per garantire la stabilità della democrazia. Altrimenti, una volta venuto meno il sostegno estero, le forze interne che si oppongono alla democrazia sarebbero in grado di riottenere il potere e vanificare così ogni risultato ottenuto. Se l’Occidente si schierasse a favore dei sostenitori di Moussavi, quale sarebbe la reazione del regime iraniano e soprattutto dei sostenitori di Ahmadinejad? Non è necessario essere esperti di strategia per capire che scoppierebbe una guerra tra bande; e che il regime userebbe questo supporto come escamotage per reprimere con ulteriore durezza gli oppositori, che, pubblicamente verrebbero facilmente etichettati come nemici della rivoluzione, della nazione, se non addirirttura dell’Islam.
Inoltre, chi si sgola per spiegarci che “non dobbiamo lasciarli soli” sembra avere una visione molto naive della struttura sociale-politica di un paese governato da una dittatura. L’assunto di base sembra essere quello per cui i popoli abbiano una aspirazione naturale alla libertà. Chiaramente, questo è uno slogan diffusosi negli ultimi anni che non ha alcuna base empirica. I popoli sono mossi da interessi, paure ed emozioni, come Hobbes aveva capito quattrocento anni fa. Samuel Huntington ha spiegato nel libro che lo rese più celebre, Political Order in Changing Societies, i rischi associati alla mobilitazione popolare. Una volta che una popolazione viene mobilitata, se non ci sono istituzioni forti in grado di veicolare le sue richieste, il rischio è quello di un crollo delle strutture statali – che in termini pratici può significare una guerra civile. E come Huntington si preoccupò di sottolineare: “ci può essere stabilità senza libertà; ma non ci può essere libertà senza stabilità”.
I cori da stadio per gli “oppressi di Teheran” sembrano dunque tradire una comprensione dei fenomeni sociali molto etnocentrica. Chi crede che in Iran sia in corso una battaglia tra il bene e il male, tra il futuro e il passato, tra il progresso e il regresso, legge i fatti di Teheran guardando al proprio cortile di casa, illudendosi di poter trarre analogie e lezioni importanti. In questo, tale atteggiamento ricorda molto quello degli esperti di sviluppo e di molti cooperanti internazionali che vanno nei paesi del terzo mondo credendo di poter risolvere la povertà dando un computer ad una tribù africana.
In tutto ciò, non vanno dimenticati i possibili effetti negativi di un eventuale sostegno occidentale. Se appoggiare il popolo iraniano, piuttosto che quello cinese, birmano, siriano, nord coreano o cubano fosse, nel caso peggiore, inutile, allora non ci sarebbe motivo di essere contrari a questa opzione. Il problema, invece, è che nel caso peggiore tale supporto può distruggere i progressi ottenuti dai gruppi di opposizione interna, e magari relegare ogni speranza per la democrazia ad un futuro da destinarsi (senza contare la risposta politica alle nostre azioni: si pensi per esempio se l’Iran chiudesse la produzione petrolifera o se la Cina smettesse di finanziare il deficit della bilancia commerciale americana).
Il caso di Cuba è forse quello più emblematico. L’invasione ordinata da Kennedy e la successiva politica di “contenimento” della minaccia cubana, anche dopo la fine della Guerra Fredda, hanno regalato ad un regime incapace e sconfitto dalla storia un longevità che mai si sarebbe potuto guadagnare da solo. Come scritto in precedenza, le origini della democrazia sono interne. In molti paesi oppressi da dittature sanguinarie, esistono movimenti che cercano, giorno dopo giorno di organizzarsi per aumentare le loro libertà. Credere di poter cambiare o anche solo accelerare il corso della storia può portare a risultati opposti a quelli sperati.
Conclusioni
Quest’ultimo punto merita attenzione. Molti di coloro che chiedono di intervenire a favore dei popoli oppressi sembrano ignorare la possibilità che l’effetto delle loro azioni possa essere diverso da quello voluto. Da questo punto di vista, è singolare che tra costoro vi siano molti liberali. Relativamente alle questioni economiche, i liberali sanno bene cosa sono le “conseguenze non intenzionali” di cui aveva parlato Adam Smith. E’ sulla base di queste conseguenze non intenzionali che i liberali criticano misure come lo stipendio minimo garantito (invece di alleviare la disoccupazione, la farebbe aumentare); il salvataggio pubblico delle aziende; etc. Ed è sulla base di queste considerazioni che i liberali adottano un approccio pragmatico quando si parla di questioni come il lavoro minorile o più in generale le condizioni di lavoro nei paesi del terzo mondo. Il progresso porterà migliori condizioni di vita, spiegano giustamente. Imporre gli standard europei nei paesi in via di sviluppo non sarebbe solamente inutile, ma anche controproducente, in quanto bloccherebbe la crescita economica e quindi i successivi progressi.
Quando il dibattito, dal piano economico, si sposta a quello politico, questi liberali sembrano dimenticare la loro saggezza, e approdare alla faciloneria con cui i partiti socialisti chiedono a gran voce di imporre regole sul lavoro più stringenti per proteggere i lavoratori. E così, finiscono per chiedere l’intervento dell’occidente per instaurare la democrazia là dove non è ancora sorta. Le conseguenze non intenzionali di questa azione; eventuali effetti perversi (moral hazard, ad esempio) vengono tutti ignorati sull’altare del perseguimento del bene assoluto. La contraddizione epistemologica nella quale questi liberali cadono rende palese la debolezza di questo approccio alla politica estera.
Non crediamo di aver svelato alcun arcano. Più semplicemente, crediamo che i processi politici siano complicati, complessi e difficili da capire. Crediamo che proporre soluzioni facili può essere intellettualmente gratificante, ma non si può credere di essere presi seriamente. Concludiamo con una citazione di Hans Morghentau, padre del realismo classico, la cui saggezza dovrebbe invece far riflettere quanti credono di avere sempre delle soluzioni a portata di mano.
“Good motives give assurance against deliberately bad policies; they do not guarantee the moral goodness and political success of the policies they inspire.” Hans Morgenthau
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