di Mario Seminerio – © Liberal Quotidiano
L’ultima edizione del Global Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale stima che le banche europee avranno bisogno di iniezioni di nuovo capitale da un minimo di 375 ed un massimo di 725 miliardi di dollari, a fronte di una cifra compresa tra 275 e 500 miliardi di dollari per le banche statunitensi. Nessuno conosce la reale entità di tale fabbisogno, naturalmente, ma quello che appare evidente è che molte banche europee hanno seri problemi, malgrado una regolazione apparentemente più rigorosa rispetto a quella delle consorelle anglosassoni. Il mancato risanamento delle banche europee è destinato ad avere un considerevole impatto sull’economia della regione, dove l’intermediazione creditizia è fondamentale nel finanziamento di imprese e famiglie, che potrebbero quindi subire gli effetti di un razionamento di credito erogato a condizioni più restrittive, in attesa che gli accresciuti margini di interesse riparino i bilanci delle banche.
Tentare di impedire questo impatto negativo sarà difficile, anche se il buon andamento dei mercati finanziari e l’abbondante liquidità che vaga per il pianeta alla ricerca di impieghi remunerativi potrebbero essere d’aiuto nella raccolta di nuovo capitale azionario, similmente a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, dove le banche stanno rapidamente colmando il deficit di capitale quantificato negli esiti dello stress test del Tesoro. Ma se il mercato non dovesse aiutare, gli stati dovranno ipotizzare di rimettere mano al portafoglio, oltre ad essere chiamati a dare una risposta al problema della regolazione su base transnazionale del sistema creditizio, attività dove il nazionalismo agisce da vera iattura, impedendo la razionalizzazione del sistema creditizio europeo. La Bce si accinge poi ad attuare il proprio programma di easing quantitativo, o più propriamente creditizio. A partire dal mese di luglio, e per un periodo di 12 mesi, l’isituto di Francoforte comprerà fino a 60 miliardi di euro di covered bonds, obbligazioni che hanno come sottostante dei prestiti, spesso ma non esclusivamente mutui ipotecari. La manovra resta per ora avvolta nella nebbia dell’assenza di concrete indicazioni operative.
Trichet si troverà poi a dover affrontare altre contingenze avverse, come la condizione del bilancio pubblico americano. Con 2000 miliardi di dollari di emissioni di titoli pubblici previste per quest’anno e solo 300 miliardi di acquisti a fermo da parte della Fed (di cui ad oggi ne sono stati eseguiti il 37 per cento), ci sono timori per il finanziamento del debito federale. Con buona probabilità, il programma di acquisti della banca centrale statunitense potrà (e dovrà) essere aumentato per frenare l’ascesa dei rendimenti. La Fed, dovendo scegliere, preferirà quindi rischiare una crisi del dollaro piuttosto che ritrovarsi con una crisi di finanziamento del bilancio, anche perché le passività estere nette degli Stati Uniti sono solo il 18 per cento del Pil, e per quasi il 90 per cento sono denominate in dollari. Perciò, un dollaro più debole avrebbe un impatto minimale sulle passività estere nette americane. Ma una forte svalutazione del dollaro porrebbe gravi problemi ai paesi dell’euro, che vedrebbero ulteriormente danneggiata la propria capacità di esportare. A quel punto, il cerino tornerebbe giocoforza nelle mani di Trichet, stretto tra una congiuntura avversa ed i pressanti “inviti” di Angela Merkel a non seguire la strada imboccata dalla Fed e dalla Bank of England.