La politica estera italiana – un anno dopo

di Andrea e Mauro Gilli

Un anno fa, all’indomani delle elezioni politiche nel nostro paese, Epistemes, insieme ai Riformatori Liberali e a l’Opinione, organizzò una conferenza sul futuro della politica estera italiana. Insieme a noi, tra gli altri, parteciparono l’onorevole Benedetto Della Vedova, il senatore Marco Perduca, l’ex-parlamentare Marco Taradash, il dirigente dei riformatori liberali Carmelo Palma, e il dirittore dell’Opinione Arturo Diaconale. La nostra posizione – contrapposta a quella degli altri relatori – era che la politica estera italiana sarebbe stata contraddistinta, durante il nuovo corso berlusconiano, da cinismo e pragmatismo.

La conferenza nacque sull’onda di alcuni articoli pubblicati su Epistemes e su l’Occidentale. Specificamente, l’on. Fiamma Nirenstein alla vigilia delle elezioni aveva più volte affermato che il futuro governo avrebbe fatto di democrazia e diritti umani l’asse portante della politica estera del nuovo gornerno. Purtroppo, ella non poté partecipare per via di impegni parlamentari sopraggiunti all’ultimo momento.

Già allora, tra la pubblicazione di un nostro articolo su Epistemes, e i primi passo del governo, una serie di azioni, dichiarazioni e atti indicavano una certa forza della nostra posizione. Ad un anno di distanza proviamo a fare un’analisi di più lungo respiro.

La domanda da porsi è se, dopo 12 mesi di governo Berlusconi IV, la politica estera italiana sia stata dominata da forti aspirazioni ideali. Ovvero, bisogna chiedersi se sia vero il contrario e i nostri rapporti verso l’estero siano stati dominati da pragmatismo e cinismo.

Nell’agosto 2008, allo scoppio della guerra tra Russia e Georgia, il Governo italiano sposò immediatamente e irrimediabilmente la linea di Mosca. Al di là di alcune ragioni sia morali che di legalità internazionale che potrebbero, comunque, giustificare questa posizione, il nostro Governo affermò senza troppi problemi che i rapporti petroliferi con Mosca erano ben più importanti della nascente (o morente) democrazia georgiana.

Di recente, quelle posizioni si sono concluse con la firma dell’accorso sulla pipeline South Stream che ci vede partner privilegiati della Russia nella costruzione di un condotto che fornisca le risorse energetiche all’Europa.

Successivamente arrivò l’accordo con la Libia – in cambio di alcuni miliardi di dollari e un impegno a favorire le infrastrutture e l’industrializzazione del Paese, Italia e Libia cementavano i loro rapporti economici (petrolio e investimenti finanziari libici in Italia) e politici (controllo delle migrazioni, etc.). Nei giorni passati, Gheddafi (un satrapo del livello di Saddam Hussein e Bashar al-Assad) è stato in visita a Roma riverito con tutti gli onori. Si noti che le reverenze offerte a Gheddafi non sono frutto di improvvisazione o assenza di decenza. Piuttosto, esse rappresentano un calcolo particolarmente sottile: dopo aver rafforzato i legami petroliferi con Mosca, mostrando di essere anche legatissimi a Gheddafi, cerchiamo di essere meno deboli nella nostra relazione con la Russia.

L’on. Nirenstein affermava che con il governo Berlusconi non avremmo più visto imbarazzanti passeggiate a braccetto con individui rei delle peggiori violenze (nel caso si riferiva ad Hizbullah). I fatti sembrano darle torto. Gheddafi non sarà un Saddam, ma certo non è un modello di rispetto dei diritti umani.

Il caso di Gheddafi è però emblematico per un’altra ragione. Esso mostra come, alla fine, democrazia e pace non siano necessariamente correlate. Gheddafi è al potere da quarant’anni, ultimamente ha deciso di vivere in pace con l’Occidente e dunque ora il suo Paese rappresenta una pedina fondamentale contro il terrorismo, l’instabilità in Medio Oriente e anche il ricatto energetico.

Casi analoghi dove i valori sembrano essere stati riposti in secondo piano ce ne sono altri: dal dialogo con Hizbullah, alle posizioni sull’Iran fino al nostro potenziale ruolo a Gaza. Per molti versi, l’Italia sembra infatti tornata alla politica di equivicinato del Divo Giulio.

In conclusione, nel centro-destra italiano c’è un certo fermento anti-obamiano. Si fa riferimento alle sue posizioni concilianti con Islam, mondo arabo e Iran come ad un segno della scelleratezza del nuovo corso di politica estera americano e ad una prova del loro fallimento. Quando Berlusconi, all’indomani delle presidenziali americane, disse di essere molto simile ad Obama, non aveva del tutto torto. La sua politica estera sembra infatti essere ispirata dagli stessi principi di quella obamiana. Dialogo, pragmatismo, assenza di ideologia, freddo calcolo.

E’ singolare che in Italia non se ne sia ancora accorto nessuno. E’ ancora più singolare che non se ne sia accorto chi, come l’on. Nirenstein, un anno fa ci prometteva l’esatto contrario.


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