La strategia Petraeus-Obama per l’Iran e l’Afghanistan

di Andrea Gilli

Barack Obama l’aveva promesso. Con la sua presidenza, la politica estera americana sarebbe cambiata significativamente. In particolare, fin dalle primarie, il neo-presidente aveva sottolineato l’importanza dell’Afghanistan, la cui situazione è letteralmente precipitata negli ultimi anni, e dell’Iran – che nella sua visione doveva diventare un partner necessario per risolvere le sfide del Medio Oriente. Negli ultimi giorni, l’amministrazione Obama ha fatto dei passi importanti proprio in questa duplice direzione. In questo articolo cerchiamo di capire la ragione alla base di questa virata nella politica estera americana e la sua opportunità.

Fin dall’inizio della campagna presidenziale, Barack Obama aveva promesso di voler focalizzare la sua attenzione sull’Afghanistan e di voler dialogare con l’Iran. Negli ultimi giorni, il neo-presidente ha materializzato questa posizione: nel giro di 48 ore, infatti, gli Stati Uniti prima hanno affermato di voler aprire all’Iran e, successivamente, di voler dialogare con i talebani in Afghanistan.

Chiaramente la nuova politica va nella direzione opposta a quella della precedente amministrazione – che si è sempre rifiutata di trattare con Tehran e che non ha mai accettato i consigli di dialogare con i talebani. Per comprendere se la scelta di Obama sia corretta o meno bisogna innanzitutto valutare la situazione attuale, alla quale ci ha condotto la politica precedente.

I fatti parlano chiaro. L’opposizione all’Iran ha complicato significativamente l’avventura irachena e, ora, non promette alcun risultato sulla questione nucleare. L’avversione ai talebani, dall’altra parte, ha portato l’Afghanistan al baratro, tanto che la situazione del Paese è quanto mai vicina al collasso.

In altri termini, finora, la posizione più radicale e intransigente, per cui non si tratta con i nemici, non ha prodotto risultati. Anzi, a dirla tutta è stata controproducente. Non dialogando con l’Iran, finora, gli Stati Uniti hanno infatti permesso al programma nucleare di Tehran di procedere speditamente. Non dialogando con i talebani, Washington ha invece portato l’Afghanistan vicino al punto del non ritorno tanto che, specie in sede NATO, sono sempre più numerosi quelli che considerano le implicazioni di un fallimento delle missioni ISAF ed Enduring Freedom. Non dimentichiamoci: il Canada si ritirerà dall’Afghanistan il prossimo anno. Gli inglesi per il momento rimangono: ma è evidente che, se le prospettive di successo dovessero precipitare ulteriormente, la coalizione dei volenterosi si trasformerebbe in una coalizione degli abbandoni.

Non stupisce, dunque, la scelta di Petraeus e di Obama. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione particolarmente difficile. La crisi finanziaria e sociale che affligge l’America non permette di distrarsi troppo sulle sfide esterne. Allo stesso tempo, Washington deve evitare che degli sviluppi esterni possano danneggiare la sua posizione o i suoi interessi internazionali. Le più importanti tematiche della sicurezza internazionale, dunque, richiedono una soluzione efficace, pragmatica e soprattutto veloce.

Petraeus ha più o meno ristabilito la situazione irachena nel giro di 12 mesi. E alla base del suo successo vi è stata la decisione di allearsi con baathisti, islamisti e iraniani per contrastare al-Qaeda. Come il generale aveva preannunciato nei mesi precedenti, in Afghanistan era necessario procedere nella stessa direzione: allearsi con i Talebani per estromettere al-Qaeda dall’Afghanistan. L’unico modo per ottenere risultati concreti e in tempi rapidi. Di qui la necessità di far partire il dialogo il prima possibile. Per alcuni, questa strategia è fallace e rischia di portare al disastro: mentre in Iraq Al-Qaeda non aveva alcun supporto (chiara prova dunque del fatto che l’Iraq non c’entrasse nulla con la guerra al terrorismo), il network di Osama bin Laden sarebbe ben radicato in Afghanistan. E quindi, difficilmente dialogando con i talebani si può ottenere un qualsiasi risultato. La realtà è purtroppo abbastanza diversa: al-Qaeda è composta da sauditi, egiziani, siriani, algerini. Questi si sono radicati in Afghanistan e hanno cercato di farlo in Iraq per raggiungere i loro obiettivi. Ma i suoi membri non si sono mai integrati con le popolazioni natie e quindi con i gruppi ad essa ideologicamente affini (siano questi i baathisti o i salafiti iracheni o i talebani afghani). Ci pare dunque che, come al-Qaeda è stata sradicata dall’Iraq, così possa essere sradicata dall’Afghanistan, anche se ciò richiederà probabilmente più tempo (perché da più tempo al-Qaeda è in Afghanistan).

L’abisso nel quale è sprofondato l’Afghanistan ha già costretto, come lo stesso Petraeus ha già ammesso, a rivedere i piani più mirabolanti che parlavano di libertà e democrazia. L’interesse dell’America è avere sicurezza: evitare che l’Afghanistan diventi un nuovo buco nero del terrorismo internazionale, impedire che destabilizzi il Pakistan (e le sue armi nucleari) e il resto dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Su questo fronte il team Obama-Petraeus si sta concentrando. E per battere al-Qaeda, l’unico modo è farla estromettere dai Talebani.

Poiché la sicurezza dell’Afghanistan passa dall’Iran, sia per ragioni logistiche che operative, anche Tehran deve far parte di questo gioco. Obama, inoltre, sa, o spera, di poter così ridimensionare la corsa iraniana al nucleare: un Iran che non teme di essere attaccato, e anzi è parte integrante di un sistema di sicurezza regionale, ha poche ragioni per sviluppare armi atomiche (storicamente e strategicamente, un armamento difensivo).

Epistemes sostiene la necessità di dialogare con Iran e con i Talebani dal lontano 2006. La scelta del team Obama-Petraeus va dunque nella corretta direzione: parte da un’analisi fattuale, e non ideologica, della situazione e propone l’unica soluzione efficace ed efficiente rimasta sul tavolo. Inoltre, Obama si rende conto del fatto che l’America, in questo momento, non può più permettersi errori, e né, tanto meno, può permettersi di darsi orizzonti temporali medio-lunghi per raggiungere i suoi obiettivi. L’America è a corto di risorse economiche, finanziarie e anche militari e sociali. La guerra in Afghanistan costa circa 100 miliardi di dollari l’anno: in un momento di crisi economica, gli americani (sempre più poveri, disoccupati e frustrati) si inizieranno presto a chiedere perché quei soldi non debbano essere spesi per gli americani.

L’unico dubbio che ci sorge riguarda la tempistica. L’America si è indebolita troppo negli ultimi anni, e la crisi finanziaria la tormenterà ancora, verosimilmente, per tutti i quattro anni di Obama. E i suoi nemici e i suoi avversari lo sanno. La decisione di dialogare con Iran e talebani doveva essere presa cinque anni fa, quando Washington poteva offrire abbondanti contropartite. In questo momento, l’America è debole, molto debole e si indebolirà ancora nei mesi e anni a venire. La domanda che i suoi avversari si fanno è dunque semplice di fronte a queste proposte: perché fare un accordo oggi per avere ciò che si può ottenere domani, senza accordo?

La risposta è troppo semplice, e gli avversari dell’America lo sanno.

Non stupiamoci, dunque, se il dialogo con talebani e iraniani sarà più complicato di quanto si immagini. Quando l’America era in una posizione di forza poneva condizioni inaccettabili. Non si capisce perchè i suoi avversari dovrebbero fare diversamente quando si trovano in una situazione analoga.


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