di Andrea Gilli e Mauro Gilli
“Avremmo voluto sentire questa notizia nel 2003, quattro, cinque, sei o sette”. Così Joe Biden, Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato Americano ha salutato il discorso fatto dal Sottosegretario di Stato, Bill Burns con il quale quest’ultimo informava del suo imminente viaggio a Ginevra per incontrare i negoziatori iraniani insieme al gruppo del 5+1.
Anche chi scrive, come Biden, avrebbe preferito una trattativa diretta con l’Iran tempo addietro. Specialmente nel 2003, quando, abbattuto il regime di Saddam Hussein in Iraq, l’Iran di Khatami (allora Ahmadinejad non era ancora diventato Presidente della Repubblica Islamica) aveva proposto agli Stati Uniti di intavolare dei negoziati tra i due Paesi. Tra le proposte avanzate, l’Iran si disse disposto a cessare il proprio programma nucleare e a riconoscere Israele (si veda questa nostra analisi pubblicata allora su LibMagazine). Gli Stati Uniti, inebriati dalla facile e veloce vittoria militare ottenuta in Iraq, risposero che non avevano intenzione di trattare con una dittatura.
Sono passati cinque anni. E, purtroppo, questi cinque anni sono stati sprecati. Nel 2003 l’Amministrazione Bush credeva di poter dettare le condizioni all’Iran, e per questo rifiutò ogni tipo di compromesso. Oggi, riconoscendo l’indebolimento relativo degli Stati Uniti, è costretta ad accettare un accordo assai meno conveniente di quello possibile allora – senza parlare del fatto che in questo periodo l’unico risultato ottenuto è stato un avanzamento sostanziale del programma nucleare iraniano. Non esattamente uno degli obiettivi favoriti da Washington.
Il miglioramento della situazione politico-militare in Iraq può spiegare in parte il nuovo approccio verso l’Iran maturato in seno all’Amministrazione americana. Dopo cinque anni in cui le fortune dell’Iraq sembravano tutt’altro che certe, la stabilizzazione ottenuta recentemente rafforza momentaneamente gli Stati Uniti in ogni trattativa con l’Iran. Per questo motivo, essa va sfruttata – e a Washington sono decisi a sfruttarla. Allo stesso tempo, è diventato ormai palese che il tempo è dalla parte dell’Iran, e più si aspetta, più la posizione di Teheran si rafforza. Inoltre, la strategia adottata finora non ha portato alcun risultato concreto.
Non si può però non riflettere sul fatto che, dopo anni passati avanzando minacce di ogni tipo, dall’imposizione di sanzioni fino all’attacco militare preventivo, Washington faccia oggi un passo indietro, e decida di trattare con l’Iran. Probabilmente l’Amministrazione Bush ha capito che per quanto generose, le concessioni del 5+1 non potevano essere prese seriamente in considerazione se gli Stati Uniti – l’attore principale sulla scena globale – non si presentano al tavolo delle trattative.
Ciò segnala forse una nuova attitudine in politica estera. Forse a Washington si sta iniziando a capire che la diplomazia, come aveva rimproverato Walter Lippman ormai sessant’anni fa, consiste nel riuscire a trovare un compromesso con i nemici. Una lezione molto semplice, che si trova in qualsiasi libro di storia. Per apprenderla, a Washington è stato necessario sprecare cinque anni, diversi miliardi di dollari, e numerose vite in Iraq.
La storia non si fa con i “se”. Non è però assurdo credere che una gestione più lungimirante della politica estera avrebbe ottenuto risultati migliori di quelli raggiunti dalla strategia dell’Amministrazione Bush. Un accordo con l’Iran nel 2003 avrebbe molto probabilmente facilitato la ricostruzione in Iraq, avrebbe terminato, o per lo meno inquadrato in un regime di controlli IAEA il programma nucleare iraniano, e quindi avrebbe permesso a Washington di utilizzare le sue risorse per altri fini. Allora, l’Amministrazione Bush preferì affidarsi quasi ciecamente alla fede nella forza degli Stati Uniti, e nella loro capacità di influenzare gli altri attori in Medio Oriente. A cinque anni di distanza si trova a dover riconoscere i propri limiti e soprattutto a dover accettare un compromesso assai meno conveniente di quello del 2003.
Molto probabilmente questa scelta verrà criticata senza mezzi termini dai “duri e puri” che predicano l’intransigenza assoluta verso Teheran. E’ bene ricordare che è merito di questo oltranzismo se cinque anni sono stati persi inutilmente.
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