di Carmelo Palma e Piercamillo Falasca
Contro l’insicurezza restituire efficienza all’apparato repressivo e giudiziario. Senza militari e senza emergenze.
Dal punto di vista politico, non c’è niente di più insicuro e pericoloso che affrontare le questioni della sicurezza. C’è, da una parte, il rischio di apparire negligenti verso paure diffuse, che condizionano in modo ineludibile il rapporto fra l’opinione pubblica e le istituzioni dello Stato. Ma c’è anche il rischio di dare per scontate, per rispetto o timore dell’opinione pubblica, una serie di dati e di relazioni che scontate non sono affatto e di cui occorrerebbe verificare sempre il fondamento reale.
La politica sulla sicurezza del Governo – sia sul versante repressivo, sia su quello giudiziario – deve oggi rispondere ad un elettorato esigente e fronteggiare una situazione complessa. Dunque è comprensibile che i vari Ministri si sforzino di parlare con messaggi “semplici”. Questa “semplicità” (non del tutto ingenua e forse in parte obbligata) è emersa, con grande evidenza, con la proposta di utilizzare il personale delle Forze Armate con compiti di pubblica sicurezza. Come ci si è arrivati? Con questa logica: Premessa 1. In Italia c’è un deficit di sicurezza. Premessa 2. A questo deficit corrisponde un deficit di personale addetto alle attività di repressione. Ergo, 3. In attesa di potenziare l’organico delle forze di polizia, occorre destinare a queste funzioni 2500-3000 militari nelle aree dei grandi centri urbani, in cui il problema della sicurezza è avvertito in modo più forte. Cerchiamo di analizzare la questione in modo rigoroso.
Esiste un deficit di sicurezza? Non abbiamo ovviamente l’ambizione di dare una risposta esaustiva a questa domanda, ma di comprendere la qualità del rapporto che si sta istituendo tra i “dati” del crimine, la percezione crescente di insicurezza, le richieste dell’opinione pubblica e le scelte del Governo.
Se ci riferiamo ai dati più “grossi” e più grezzi – ad esempio: omicidi per mille abitanti e totale dei delitti denunciati – l’Italia appare un paese ragionevolmente sicuro. Nel 2005 vi sono stati 10,3 omicidi per mille abitanti (in calo rispetto agli anni precedenti) contro una media europea di 14 omicidi e 2,5 milioni di delitti denunciati, contro i circa 3,8 della Francia e i 6,5 del Regno Unito (elaborazioni dati Eurostat, New Cronos; vedi “100 statistiche per il paese”, Istat). Questi dati, ovviamente, risentono delle notevoli differenze esistenti tra i diversi sistemi penali e giudiziari europei e della propensione – diffusa in modo asimmetrico tra i paesi – a denunciare (o a non denunciare) i reati di lieve entità. Inoltre, i numeri assoluti dei diversi delitti e il loro rapporto con quelli che si riscontrano nei paesi europei di dimensioni analoghe, non devono nascondere che il relativo peggioramento delle condizioni di sicurezza in Italia emerge anche dalle statistiche giudiziarie: dal 2001 al 2006 sono aumentati del 28 % i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria e tra questi le rapine sono aumentate di quasi un terzo e i furti di più di un quarto (Istat, Rapporto annuale 2007- Dati statistici). Anche considerando che fra il 2001 e il 2006 è mutato il sistema di rilevazione e che i dati non sono quindi perfettamente omogenei, è difficile negare che il peggioramento c’è stato ed è stato forte.
Tutto chiaro? Non proprio. Il senso di insicurezza non risponde in modo così diretto alle statistiche giudiziarie. Secondo una ricerca condotta nel 2002 (Istat, Indagine multiscopo sulle famiglie “Sicurezza dei Cittadini”, 2004) i reati che destavano più allarme erano il furto in appartamento (il 60,7% degli italiani ne era molto o abbastanza preoccupato) e quello di autoveicoli (e qui la percentuale dei preoccupati scendeva al 46, 2%), malgrado la curva di questi reati segnasse una netta discesa (discesa che, per i furti in appartamento, si è confermata fino ad oggi). Le rapine facevano decisamente meno paura dei furti in appartamento: eppure nei 20 anni precedenti l’indagine, le rapine erano praticamente raddoppiate, passando dalle 36,6 alle 70,2 per 100.000 abitanti (Ministero dell’Interno, Rapporto sulla criminalità in Italia, 2007). E’ dunque abbastanza evidente che la correlazione tra insicurezza e reati non dipende (solo) dal numero assoluto o dalla crescita relativa di questi ultimi.
Bisogna dunque intendersi sul significato di sicurezza. Una buona definizione la fornisce l’Istat, quando distingue una componente oggettiva (comportamenti antisociali o delittuosi) ed una soggettiva (percezione dell’allarme sociale da parte degli individui). Entrambe sono dimensioni essenziali della convivenza civile. Non è ragionevole, a nostro giudizio, considerare la componente soggettiva puramente “erronea” e ininfluente sui meccanismi di funzionamento di un paese. Possiamo vivere in un paese molto sicuro, ma se i cittadini avvertono un’elevata insicurezza, ciò si tramuta in una riduzione del benessere – individuale e collettivo – e in una diminuzione del grado di fiducia nei confronti delle istituzioni. Un diffuso senso di insicurezza – corroborato o meno dalla realtà – orienta i comportamenti degli individui, aumenta i costi di transazione, riduce la mobilità urbana, inibisce gli investimenti… In base alle indagini dell’Eurobarometro relative al 2005, il 58,7 per cento degli italiani considera la criminalità una questione rilevante. Inoltre, il 33 per cento sceglie la criminalità come problema “numero uno”, a fronte di un 29 per cento che indica l’inflazione ed un 27 per cento che si orienta per la disoccupazione. Anche per questa ragione, però, occorre evitare di suffragare la sensazione di insicurezza, svalutandone la componente soggettiva e ingigantendone, oltre misura, quella oggettiva. Inoltre un governo deve “governare” anche il fatto che l’Italia è un paese che per tassi di invecchiamento, di scolarizzazione e di occupazione è particolarmente esposto alla percezione dell’insicurezza sociale in genere e di quella “criminale” in particolare.
Esiste, pertanto, un deficit di sicurezza in Italia? Non si può dare una risposta netta alla domanda: i dati descrivono un paese ragionevolmente sicuro rispetto ad altri paesi europei, ma sono “viziati”, come già detto, dalle peculiarità nazionali (a partire da quella del “sommerso”). Si può invece dire con una qualche certezza che si va pericolosamente ampliando lo scarto tra la componente oggettiva e quella soggettiva dell’insicurezza. E questa non è affatto una tendenza da promuovere, ma da arginare. Nondimeno, la percezione di insicurezza – indiscutibilmente rilevante – è tale che la “domanda” di sicurezza non possa essere elusa dal governo. E’ importante – tuttavia – che la risposta sia coerente e efficiente: una cosa è contrastare un tasso di criminalità elevato, altra cosa è rispondere ad una percezione di insicurezza particolarmente profonda. L’Italia ha innanzitutto questo secondo problema: siamo dunque sicuri che l’invio di alcune migliaia di soldati nelle città italiane sia la risposta migliore? No. Anzi, possiamo essere plausibilmente sicuri del contrario.
Lasciamo da parte il problema di forma (anche se sarebbe bene non abituarsi all’uso dei militari per compiti di polizia) e andiamo al problema di sostanza: non è affatto vero che esista un deficit allarmante nell’organico delle forze dell’ordine. Tra i grandi paesi europei, l’Italia è quello che ha sulla carta il maggior numero di addetti a compiti di polizia. I numeri li prendiamo da un’indagine Onu sul crimine del 2004: per ogni centomila abitanti, in Italia vi sono circa 559 agenti, 210 in Francia, 294 in Germania, 259 in Gran Bretagna (Fonte: The Eighth United Nations Survey on Crime Trends and the Operations of Criminal Justice Systems). La statistica tiene conto del personale di polizia in senso stretto, escludendo dal calcolo i civili impiegati nella macchina amministrativa delle forze dell’ordine. Il problema è che nel nostro paese, un numero cospicuo di poliziotti, carabinieri e finanzieri svolge proprio questo genere di mansioni (a volte, in virtù di percorsi di carriera discutibili) e non quelle più direttamente connesse al controllo del territorio o al contrasto del crimine. L’impiego per un anno dell’esercito per compiti di controllo del territorio urbano appare eccessivo ed inadeguato anche a risolvere un problema di fiducia, che andrebbe affrontato anzitutto per via ordinaria: leggi severe e applicabili, un sistema di repressione efficiente che usi in modo oculato gli organici disponibili e un sistema di giustizia che sia in grado di funzionare con tempi e modi coerenti e non con proprie e “separate” priorità politiche.
Se poi si volesse ulteriormente ampliare l’organico delle forze di polizia impiegate in compiti di controllo del territorio e di ordine pubblico, ci sarebbe comunque una strada più semplice (e meno costosa) di quella di assumere nuovo personale o “scomodare” l’esercito.
L’abolizione dell’Ici sulla prima casa ha ridotto le incombenze dei comuni: tra accertamenti e riscossione dell’imposta, assistenza ai clienti, contenziosi tributari e quant’altro, la soppressione dell’odiata imposta rende ampiamente sovradimensionati gli uffici tributi delle amministrazioni. Su scala nazionale, non parliamo di numeri enormi, ma di alcune migliaia di dipendenti.
Come ha proposto Benedetto Della Vedova ben prima che si scegliesse di “usare i militari”, si potrebbero agevolmente introdurre forme di mobilità tra enti, per spostare i dipendenti in esubero (magari con meccanismi premianti per loro ed i comuni) verso i commissariati di polizia, le caserme dei carabinieri o, almeno, gli uffici amministrativi della polizia urbana. Lo Stato si accollerebbe la spesa delle loro retribuzioni, compensando così una parte del minor gettito Ici, e – in termini generali – si determinerebbe una piccola traslazione di spesa pubblica dalla “macchina per la macchina” (cosa sono, se non questo, gli uffici tributari?) ad una “macchina per i cittadini”, ossia le forze di polizia.
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