di Mauro Gilli
Il nuovo libro di Robert Kagan The Return of History and the End of Dreams parte dal presupposto che la speranza assai diffusa durante tutti gli anni Novanta secondo la quale il mondo sarebbe stato proiettato verso un’era di pace e prosperità era basata su assunti del già obsoleti al tempo della sua prima formulazione (p. 10). Per Kagan, l’attuale crescita di nuove potenze segna infatti “il ritorno della Storia” – prendendo come bersaglio la famosa tesi della “fine della Storia” di Francis Fukuyama. In altre parole, il sistema internazionale, lungi dall’essere entrato in una nuova era, è invece tornato alla Politica di Potenza dopo una breve, brevissima pausa.
La Storia è ricominciata?
Leggendo questo veloce saggio, sorge naturale chiedersi se la storia fosse davvero mai finita. Kagan, parla di illusioni e di sogni, ammettendo implicitamente che in verità la storia non si era mai fermata. Ricorda come durante tutti gli anni ’90, il consenso sulla “fine della Storia” fosse “quasi universale” (p. 4). E che solo pochi, isolati analisti provarono ad opporsi a questa ondata di euforia. Quei pochi erano gli studiosi di scuola realista, da Kenneth Waltz a John Mearsheimer fino a Colin Gray (nota 1). Come Kagan stesso riconosce: “realists had a clear understanding of the unchanging nature of human beings” (p. 11). Allora come oggi i realisti furono accusati di essere delle cassandre o addirittura di essere incapaci di vedere e capire l’evoluzione dei tempi (nota 2). Da quanto scrive Kagan sembra di capire che avevano ragione.
Kagan è uno scrittore intelligente. Non si perde in diatribe intellettuali sterili, e va subito al nocciolo del problema: la crescita di altre grandi potenze. Non discute di concetti astratti. Si focalizza sulla realtà e su cosa davvero influenza le relazioni tra gli Stati. Guarda alla forza relativa degli Stati, a come la usano per difendere la loro sicurezza, e infine a come questa influenzi la loro defininizione degli interessi nazionali. La sua è un’analisi realista, in tutti i sensi. Lo diciamo in modo chiaro: Kagan è un realista. Nel suo libro Of Paradise and Power aveva scritto che serviva “un ritorno al realismo”. Nella prima parte di questo saggio, la concezione filosofica alla quale si appoggia per analizzare i fatti reali diventa ulteriormente chiara.
Kagan non si limita a sottolineare come la natura umana sia immutabile, e come il conflitto sia parte essenziale di essa (p. 11) – sintetizzando così quella che è la “visione pessimistica” che i realisti, da Tucidide a Hobbes, per arrivare fino a Carr e Morgenthau hanno sempre avuto rispetto al genere umano e che li differenzia rispetto agli idealisti, da Platone a Kant, fino a Wilson e Angel – per i quali invece, grazie alla ragione, l’uomo sarebbe in grado di correggere i suoi errori e difetti, e dunque raggiungere pace e benessere. Kagan fa riferimento diretto anche ai concetti tipici del realismo (concetti che, negli ultimi anni, sono stati spesso dimenticati tanto dai policy makers quanto dai vari analisti dell’ultima ora). Parla infatti di onore, interesse, paura (si veda pp. 15-17, 18, 30-31, 35, 43, 45, 47-48, 49-50, 80) – i tre fattori che secondo Tucidide muovono gli esseri umani. E infine riporta poi alla luce il termine nazionalismo, un fenomeno che, sull’onda delle analisi secondo cui il mondo è “piatto” (Friedman: 2005), non dovrebbe più esistere. Per ultimo, quando parla degli Stati Uniti, spiega come il loro dinamismo militare degli ultimi vent’anni (il termine è nostro, vogliamo usare un eufemismo) sia dovuto prima di tutto alla fine dell’era bipolare (pp. 49-50), riassumendo così alla perfezione quanto scritto da Kenneth Waltz qualche anno fa (nota 3).
Le contraddizioni di Kagan
A questo punto, una riflessione diventa spontanea. Sulla base di quanto scritto emergono infatti importanti contraddizioni tra quanto Kagan propone in questo saggio e quanto lui stesso e gli altri “neoconservatori” di primo piano hanno detto negli ultimi anni. Infatti, se la natura umana è immutabile e il conflitto tra gli uomini è parte essenziale di essa, come si può credere che con la promozione della democrazia, i Paesi finscano di farsi la guerra? Non è questa un’altra illusione? Un altro sogno da fine della storia? Per essere vero, la democrazia dovrebbe cambiare la natura umana, immutabile secondo Kagan – ossia bisognerebbe accettare quanto sostenuto da Fukuyama nel suo La Fine della Storia e l’Ultimo Uomo sia vero. Proprio quanto Kagan rigetta (p. 8). Kagan accusa poi coloro che hanno creduto che l’espansione dei commerci avrebbe portato la pace. “La storia non è stata gentile con [questa] teoria”, dice (p. 79). Ma lo stesso è vero proprio con la teoria della pace democratica con la quale i neoconservatori si sono inebriati. Fior di studiosi hanno sottolineato l’inconsistenza empirica e l’irrilevanza teorica di questa tesi che tende a ricondurre i fenomeni internazionali ad un unico e solo fattore, la democrazia interna, dimenticando invece proprio il ruolo di tutti quei fattori che Kagan enfatizza nel suo saggio: forza relativa, sicurezza, nazionalismo e interessi. Strano che Kagan non voglia far riferimento a questo aspetto (nota 4).
In modo analogo, leggendo questo saggio si nota un’altra contraddizione palese. Se il nazionalismo è un fenomeno tanto importante nella politica internazionale, come si può pensare che, intervenendo militarmente in un Paese straniero, esso susciti approvazione da parte della popolazione locale? Certamente la rimozione di una tirannide verrà salutata positivamente. Ma ignorare le possibile conseguenze locali, come scontri etnici e tribali – esattamente quanto avevano preventivato i famosi realisti – è significativamente bizzarro (nota 5).
Inoltre, come fa Kagan a dire che le previsioni dei realisti di un ritorno al balance of power erano sbagliate (p. 11) se, alla base del suo libro, c’è appunto la crescita di nuove grandi potenze? Ovviamente le due cose non coincidono, è giusto sottolinearlo. Esiste ed esisterà ancora per un po’ di tempo una superpotenza con alcune grandi potenze emergenti nel panorama internazionale. Ma se in questo trend si vuole trovare la conferma per qualche previsione, ebbene, le tesi che preannunciavano un ritorno dell’equilibrio di potenza risultano certamente rafforzate rispetto a quelle che parlavano dell’inizio dell’era unipolare (nota 6). La crescita di nuove grandi potenze avrà infatti immediati effetti a livello regionale. Gli Stati Uniti sono “the only remaining superpower” perchè sono l’unico Paese in grado di proiettare la propria forza su ogni continente. Ma se all’interno di ognuno di questi essi perdono la loro influenza, inevitabilmente anche la loro posizione globale si riduce. Il declino relativo degli Stati Uniti (l’attenzione va concentrata sull’aggettivo), in questo senso, è iniziato. L’emergere di un nuovo equilibrio mondiale richiederà ancora del tempo. Ma l’era dell’unipolarismo americano è certamente finita (nota 7).
Infine, se quanto scritto da Kagan in questo saggio è vero, ossia che gli interessi, l’orgoglio nazionale e la sicurezza sono i fattori che guidano la politica estera degli Stati, come mai i neoconservatori sono stati fieri sostenitori di tutte quelle politiche che, a partire dall’allargamento della Nato fino al sostegno di qualsiasi istanza indipendentistica del precedente governo taiwanese, senza portare alcun beneficio concreto agli Stati Uniti, hanno arrecato danni agli interessi di Russia e Cina, ne hanno ferito l’orgoglio nazionale e ancora più importante, ne hanno messo in discussione la sicurezza nazionale?
Il ritorno di Kagan
Queste contraddizioni rimarrebbero largamente inspiegate se Kagan non offrisse in questo stesso libro una chiave per risolverle. Infatti, da un certo punto in avanti, la sua analisi sembra dimenticare quanto precedentemente scritto per arrivare così ad affermare un po’ tutto e il contrario di tutto. Kagan scrive che la politica estera di un paese è dettata dalla natura delle sue istituzioni domestiche. Ovviamente nessuno oserebbe contraddire questa affermazione se non ci avesse già pensato lui stesso. Che la politica interna sia importante è riconosciuto da tutti gli studiosi, e questa affermazione è talmente banale da essere caricaturale. Nessuno ha mai negato il ruolo della sfera domestica nella formulazione della politica estera. Cosa molti studiosi hanno sottolineato è che in molti casi essa gioca un ruolo di secondo piano. Kagan stesso riconosce implicitamente questa realtà. Infatti, quando parla dell’ascesa della Cina, sottolinea l’analogia tra il comportamento di tutte le Grandi Potenze in ascesa, Stati Uniti inclusi (p. 31) non trovando dunque alcuna significativa differenza tra democrazie e autocrazie (nota 8). Ancora più interessante è ilfatto che Kagan ricordi poi come proprio gli Stati Uniti, quando si sono trovati a non avere più una minaccia, l’Unione Sovietica, hanno optato per l’espansione, nonostante la loro natura “liberale” (p. 49-50) (nota 9).
Ignorando queste sue considerazioni, Kagan ritiene che all’ascesa di nuove potenze debba esser compresa guardando ad un altro importante fattore: la loro natura autocratica. Ciò, nella sua analisi, rappresenterebbe la grande minaccia per le democrazie occidentali. Infatti, cosa si starebbe realizzando è la costituzione di una frattura geopolitica tra le democrazie e le autocrazie che “dominerà” la politica mondiale del futuro (p. 58). La tesi, ovviamente, è tanto bizzarra quanto datata. Per quanto una visione assai romantica voglia trovare nella lotta tra liberalismo e autocrazia la chiave di lettura della storia ottocentesca e novecentesca, la realtà è ben diversa. Pensare che le alleanze tra i paesi siano definite in base alle affinità ideologiche è infatti non solo superficiale, ma anche astorico (nota 10). La frattura tra Jugoslavia e Unione Sovietica prima, e tra quest’ultima e la Cina dopo sono solo due degli illustri esempi. Si può poi ritornare all’alleanza dell’Italia “liberale” con la Germania Imperiale fino al Maggio 1915, all’alleanza tra la democratica Finlandia e la Germania Nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, per non parlare poi di quella tra Unione Sovietica e Stati Uniti nello stesso periodo. E cosa dire poi del’800? Diversamente da quanto viene generalmente sostenuto, l’Inghilterra nella seconda metà del secolo considerava la Francia, e non la Germania, il suo principale avversario. Solo quando il rafforzamento della Germania divenne minaccioso, l’Inghilterra decise di abbandonare le sue reticenze, e decise di siglare la Cordiale Entente nel 1904. E ciò si è ripetuto nel primo dopoguerra. Il punto é che la Francia ha sempre avuto istituzioni democratica, o piú democratiche, del cugino tedesco. Come ha spiegato Kissinger in Diplomacy, uno dei più gravi errori del Foreign Office fu proprio quello di individuare nella Francia, e non la Germania, la nuova minaccia negli anni ’20 (nota 11). Tutti queste esempi e altri, che possono spingersi fino alla battaglia di Lepanto del 1571, dimostrano come la convergenza di interessi geostrategici abbia fatto superare ogni tipo di divergenza ideologica tra i Paesi. Lo stesso Kagan ammette che possa non esserci una perfetti simmetria tra le autocrazie e le loro rispettive politiche estere (“proprio come è successo durante la guerra fredda”, p. 73). Ciononostante, insiste, “nel mondo di oggi la forma di governo di un Paese è il migliore indicatore […] della sua collocazione geopolitica” (ibid.). Una conclusione che, ad essere oggettivi, appare del tutto campata in aria. I rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, Egitto, Pakistan, Vietnam, Azerbaijan offrono solo alcuni dei molteplici esempi per rigettare questa tesi.
Kagan sembra infatti confondere causa con effetto. Per lui, il fatto che Russia, Cina, Iran, Sudan, Venezuela, Nord Korea e compagnia cantante siano tutti dalla stessa parte è la conferma della sua idea. Kagan non prova a domandarsi se non ci possa essere qualcosa di più profondo. Se non esistano interessi convergenti tra questi Paesi che li spingano insieme. Non considera l’ipotesi che tutti questi, più o meno direttamente, abbiano interessi in contrasto con gli Stati Uniti, e che quindi si rafforzino da un indebolimento relativo di Washington. Se è la forma di governo a dettare la collocazione geopolitica di un Paese, come mai Germania e Francia non hanno esitato a schierarsi con la Russia ai tempi della guerra in Iraq? E come mai queste ultime sono promotrici per la fine dell’embargo sulla vendita di armi alla Cina? La sfera domestica conta. Certamente, ma ci sono anche altri fattori. Dimenticarli non sembra essere un modo serio per analizzare la realtà.
Le conclusioni che Kagan trae non salvano certamente il suo lavoro. Piuttosto offrono un altra, se necessaria, prova della contradditorietà delle sue tesi. Infatti, mosso da non si sa bene quale idea, Kagan arriva a proporre l’idea di una lega (o concerto) di democrazie. Questa non dovrebbe sostituire l’ONU, la Nato o il G8. Essa dovrebbe servire per “mostrare l’impegno verso le idee democratiche, e potrebbe diventare un modo per raccogliere risorse dai paesi democratici per risolvere questioni che non possono essere affrontate in seno alle Nazioni Unite” (p. 98). Se questa proposta contenesse un minimo di serietà, si potrebbe trovare un riferimento, anche limitato, al forum di Praga. Creato nel 2000, esso è, in tutto è per tutto, una lega tra le democrazie. Il fatto che esso sia stato relegato al silenzio dice molto più di qualsiasi altro nostro commento sulla sua utilità nella sfera internazionale. E anche sull’onestà intellettuale di Kagan. D’altronde, se le democrazie sono schierate dalla stessa parte, per quale motivo dovrebbero unirsi in un’organizzazione internazionale? Kagan dice che ciò sarebbe necessario per dare legittimità alle loro azioni. Ma che legittimità può dare un’organizzazione “ex-novo”?
Conclusione
The Return of History and the End of Dream è un ottimo lavoro. Smentisce in modo chiaro ed efficace buona parte della retorica che ha influenzato e continua ad influenzare il dibattito politico americano. Sfortunatamente Kagan non si sforza e non riesce a fare “31”. Spiega in modo chiaro il funzionamento della politica internazionale, ma poi contraddice se stesso per poter così proporre tesi nè nuove nè originali. Nè tanto meno realistiche. La lega delle democrazie è un chiaro esercizio retorico. D’altronde, fu proprio lui a scrivere a chiare lettere, solo cinque anni fa, che era ora di ammettere che tra le due sponde dell’Atlantico si era creata una frattura, dovuta ad una differente concezione del potere. Se cinque anni fa gli Europei venivano da Venere e gli Americani da Marte, Kagan come fa a pensare di poterli riportare oggi entrambi sulla terra, e farli andare d’accordo? Delle due l’una: o Kagan aveva torto cinque anni fa, oppure ha torto oggi. Per chi scrive, la tesi centrale di Of Paradise and Power era corretta. Gli interessi di Stati Uniti ed Europa sono ormai divergenti. E’ un dato di fatto. Fingere di ignorarlo non è serio. Credere che queste divergenze possano essere sorpassate, contraddicendo la storia, grazie alla natura democratica di entrambi i Paesi sulle due sponde sull’Atlantico è semplicemente un’illusione, proprio come quella della fine della Storia.
I paesi sono alleati quando i loro interessi geostrategici coincidono. Sono rivali quando divergono. Come ha spiegato il professor Marco Cesa, spesso, gli Stati sono allo stesso tempo alleati ma rivali. La storia non è finita. E non finirà. Purtroppo. Capirne i meccanismi centrali è importante per evitare degli errori. Kagan non verrà ricordato per aver contribuito a questo scopo.
Riferimenti bibliografici
Nota 1: Kenneth N. Waltz, “The Emerging Structure of International Politics,” International Security, Vol. 18, No. 2 (Fall 1993), pp. 44-79; and “Structural Realism and the End of the Cold War,”International Security, Vol. 25, No. 1 (Summer, 2000), pp. 5-41; John J. Mearsheimer, “Back to the Future: Instability in Europe after the Cold War,” International Security, Vol. 15, No. 1 (Summer, 1990), pp. 5-56; and “Why We Will Soon Miss the Cold War,” The Atlantic, August 1990, pp. 35-50; and Colin Gray: “we are in the middle of two periods of war”; Colin S. Gray, “Villains, Victims and Scheriffs: Strategic Studies and Security for an Interwar Period,” Comparative Studies, Vol. 13, N. 4, pp. 353-369.
Nota 2: Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics,” International Organization, Vol. 46, No. 2 (Spring, 1992), pp. 391-425; Social Theory of Politics (New York: Cambridge University Press, 1999); Jeffrey W. Legro and Andrew Moravchic, “Is Anybody Still A Realist?,” International Security, Vol. 24, No. 2 (Fall 1999), pp. 5–55; Joshua Muravchic, Exporting Democrazy (Washington DC: AEI Press, 1992).
Nota 3: Christopher Layne, “The Unipolar Illusion: Why New Great Powers Will Rise,” International Security, Vol. 17, No. 4 (Spring, 1993), pp. 5-51; and “The Unipolar Illusion Revisited: The Coming End of the United States’ Unipolar Moment,” International Security, Vol. 31, N. 2 (Fall 2006): 7-41; Waltz, “The Emerging Structure of International Politics”; and “Structural Realism after the End of the Cold War”.
Nota 4: La letteratura su questo tema è ormai sterminata. Cosa appare paradossale è il fatto che, a fronte di argomentazioni teoriche ed empiriche solide, i sostenitori di questa tesi non siano riusciti ad andare oltre alle due argomentazioni diventate ormai ridondanti: la loro evidenza empirica, e la logica secondo cui gli uomini, quando possono, scelgono la pace. L’evidenza empirica è tanto debole quanto insignificante. Il fatto che non ci sia mai stata una guerra tra democrazie non significa che ciò sia dovuto alla presenza della democrazia di per sè. Chi scrive non ha mai fatto a pugni con Saddam Hussein. Questo non significa che chi scrive e Saddam Hussein siano entrambi due brave persone. Può essere dovuto semplicemente al fatto che non hanno mai avuto occasione per fare a pugni. Le democrazie sono diventate un numero significativo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Considerazioni geostrategiche convergenti (la minaccia sovietica) le hanno portate ad allearsi. Fattori materiali (la presenza militare americana sul loro territorio) hanno permesso loro di superare lo stato hobbesiano che rende difficile la cooperazione tra Paesi.
In modo analogo, affermare che gli uomini liberi scelgono la pace è tanto superficiale quanto sbagliato. Come disse Churchill all’inizio del ‘900, “le guerre dei popoli si dimostreranno molto più sanguinose delle guerre dei re”. L’evidenza mostra piuttosto come, sotto la pressione popolare, sia più facile che un Governo sia spinto verso una politica estera aggresiva, piuttosto che non il contrario. Il fatto che Alexis de Tocqueville, il cantore della democrazia americana, affermasse che le democrazie mancano di tutte le caratteristiche necessarie per realizzare una buona politica estera e hanno tutte quelle qualitá che rendono piú difficile questo obiettivo dice probabilmente piú di ogni altra cosa.
Per chi possa essere interessato a riferimenti bibliografici può essere utile il nostro “Cina Istruzioni per l’uso: un punto di vista realista,” in Ideazione, vol. XVI, n. 5 (novembre-dicembre 2006), pp. 40-48
Nota 5: John J. Mearsheimer and Stephen M. Walt, “Keeping Saddam in a Box,” The New York Times (February 2, 2003).
Nota 6: Charles Krauthammer, “The Unipolar Moment,” Foreign Affairs, Vol. 70, N. 1, America and the World 1990/91 Issue; and “The Unipolar Moment Revisited,” The National Interest, V. 70, pp. 5-17.
Nota 7: Richard Haas, “The Age of Nonpolarity: What Will Follow U.S. Dominance,” Foreign Affairs, Vol. 87, N. 3 (May-June 2008); Fareed Zakaria, The Post-American World (New York: W.W. Norton & C., 2008).
Nota 8: Samuel P. Huntington, “America’s Changing Strategic Interests,” Survival, Vol. 33, No. 1 (Jan/Feb 1991), p.12; e Fareed Zakaria, From Wealth to Power: The Unusual Origins of America’s World Role (Princeton: Princeton University Press, 1999), chap. 2.
Nota 9: Jack Snyder, Myths of Empire: Domestic Politics and International Ambition (Ithaca: Cornell University Press, 1993); e Waltz, “Structural Realism and the End of the Cold War”.
Nota 10: Marco Cesa, Alleati ma Rivali: Teoria delle Alleanze e Politica Estera Settecentesca (Bologna: Il Mulino, 2007); e Stephen S. Walt, The Origins of Alliances 1987 (Ithaca: Cornell University Press, 1990). Si veda anche Mancur Olson Jr. and Richard Zeckhauser Alliances, “An Economic Theory of Alliances,” The Review of Economics and Statistics, Vol. 48, No. 3 (Aug., 1966), pp. 266-279.
Nota 11: Henry A. Kissinger, Diplomacy (New York: Simon % Schuster, 1995).
Nota 12: Cesa, Alleati ma RIvali.
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