di Mario Seminerio – © Libero Mercato
I prezzi del petrolio sono cresciuti drammaticamente negli ultimi sei anni. Il West Texas Intermediate (WTI), benchmark del mercato, ha superato i 126 dollari, a fronte di soli 19,9 dollari alla fine del 2001. Un aumento di oltre il 500 per cento. Il motivo fondamentale alla base del rally dei prezzi è dato dalla crescita della domanda, a cui l’offerta non è riuscita a stare al passo. Nel quinquennio 2003-2007 la domanda globale di petrolio è aumentata di 8,1 milioni di barili al giorno, mentre nel quinquennio 1998-2002 l’incremento è stato di soli 4,1 milioni di barili al giorno. La Cina è stata la principale fonte di tale domanda aggiuntiva: i consumi cinesi sono cresciuti di 2,5 milioni di barili al giorno (più 50 per cento) tra il 2002 ed il 2007, quando l’industrializzazione del paese è entrata in una fase di accresciuta dipendenza energetica (per lo sviluppo di industrie energivore quali costruzioni ed acciaio) ed il numero di veicoli per le strade è fortemente aumentato.
La seconda grande fonte di domanda aggiuntiva proviene dal Medio Oriente, dove la crescita dei consumi (pari a 1,2 milioni di barili al giorno) è stata supportata da rapida crescita economica e prezzi dell’energia mantenuti artificiosamente bassi grazie a sussidi pubblici. Anche il consumo negli Stati Uniti, il maggior utilizzatore di petrolio del pianeta, è cresciuto di 1,2 milioni di barili al giorno. A fronte di tale aumento di domanda l’offerta (soprattutto quella non-Opec) non è cresciuta a sufficienza. Anni di sottoinvestimento, deficit tecnologico e di competenze specialistiche hanno rapidamente spinto al rialzo i costi di localizzazione di nuovi giacimenti ed il loro successivo sfruttamento. Oggi si rilevano situazioni di flessione della produzione (come nel caso della Russia), che sembrano far presagire il raggiungimento del Peak Oil in alcune aree, ed ogni minaccia di interruzione nei flussi di fornitura aggiunge pressione rialzista ai prezzi.
Negli ultimi cinque anni, per contro, la produzione Opec è passata da 21,7 milioni di barili al giorno ai 27,25 milioni odierni (esclusi i nuovi entranti Ecuador e Angola), e la produzione effettiva corrente dovrebbe situarsi circa 200.000 barili al giorno oltre tale livello. Ma i paesi Opec hanno anche limitate capacità produttive di riserva, con la sola eccezione dell’Arabia Saudita, che disporrebbe di 2 milioni di barili aggiuntivi al giorno, pur trattandosi di greggio di qualità non eccelsa, che richiede una raffinazione complessa e costosa, non disponibile a tutti gli impianti. Per questo motivo questo tipo di greggio quota a sconto di circa il 15 per cento rispetto al WTI. Oggi stiamo quindi vivendo una fase di aumento strutturale di domanda a fronte di limitata capacità di offerta: non si tratta di uno shock dal lato dell’offerta come quelli che hanno caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta.
Ma oltre alla domanda che potremmo definire “reale” esiste una domanda finanziaria, quella dei fondi d’investimento, soprattutto hedge. Negli ultimi mesi si è evidenziata un’accresciuta correlazione inversa tra prezzo del petrolio e corsi del dollaro. La motivazione risiede nel fatto che i prezzi del petrolio sono un investimento denominato in dollari che sta mantenendo o accrescendo il proprio valore contro altre divise, anche se il dollaro si deprezza. In aggiunta, con mercati azionari e tassi d’interesse in calo, le materie prime in generale ed il petrolio in particolare sono considerate investimenti attraenti. Molti fondi hedge hanno utilizzato la propria leva finanziaria per acquistare contratti futures sul petrolio, nel tentativo di recuperare perdite sofferte su altre tipologie d’investimento. Possiamo quindi ritenere che le attuali quotazioni del greggio siano frutto di movimenti di domanda reale e di domanda finanziaria. Inutile cimentarsi in stime dell’incidenza delle due componenti sul rialzo complessivo, saremmo nel regno dell’opinabile. Quello che è interessante osservare è che in questi giorni, in parallelo alla irresistibile ascesa dei prezzi, si stanno moltiplicando le richieste di misure di contrasto della speculazione.
L’ultima di tali richieste è contenuta nel Consumer-First Energy Act, il progetto di legge presentato dal leader della maggioranza democratica al Senato degli Stati Uniti, Harry Reid, che imporrebbe alla Commodities Futures Trading Commission (CFTC, il regolatore della borsa a termine sulle merci) di alzare i margini iniziali sui futures petroliferi, cioè l’importo che ogni operatore deve depositare presso la borsa per poter operare sul contratto sottostante. A tale iniziativa hanno replicato i dirigenti del NYMEX, la borsa-merci di New York, sostenendo che aumentare i margini iniziali renderebbe il mercato molto meno trasparente, spostando flussi di attività fuori dai mercati regolamentati. Più realisticamente, il NYMEX non vuole perdere quote del mercato dei derivati, e rinunciare così alle commissioni che tale operatività genera. Gli ultimi dati disponibili sugli open interests (il totale dei contratti in futures ed opzioni che non sono ancora stati consegnati o cancellati con operazione di segno opposto), mostrano tuttavia che nella prima settimana di maggio il mercato è diventato ancora più “lungo” (cioè fatto di compratori) proprio per effetto dell’incremento di posizioni nette lunghe non-commerciali, cioè quelle speculative.
Non sappiamo quale sarà il destino del Consumer-First Energy Act (un veto del presidente Bush appare molto probabile, poiché la legge prevede anche l’aumento della tassazione per le compagnie petrolifere), ma riteniamo che aumentare i margini iniziali sui futures petroliferi nei soli mercati statunitensi difficilmente sarà una mossa decisiva per scremare gli eccessi di “domanda finanziaria” indotta, che peraltro ha molte sorgenti. Basti pensare all’aumento dei fondi-indice specializzati su commodities, che tendono ad amplificare i movimenti di mercato, nei due sensi; oppure alla competizione tra borse-merci, che tende a vanificare i meccanismi di controllo interni ad un solo paese. Per fare un esempio, oggi l’International Commodities Exchange di Londra (ICE) permette ai traders statunitensi di scambiare contratti sulle materie prime quotati sul mercato britannico senza dichiarare nulla al proprio regolatore domestico.
Anche per questi motivi, ove i prezzi del petrolio continuassero a mostrare una tendenza esplosiva non immediatamente riconducibile ai fondamentali dell’economia mondiale, potrebbe rendersi necessario ed opportuno un maggiore coordinamento dei flussi informativi ed integrazione della regolamentazione tra piazze finanziarie. Non per coartare i mercati, ma per dare loro una infrastruttura coesiva globale, ed evitare altri fallimenti informativi come quelli che hanno condotto al disastro delle cartolarizzazioni. Forse la storia si ripete, dai bulbi di tulipano olandesi del Seicento ai derivati su materie prime del Ventunesimo secolo.
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