di Mario Seminerio – © Libero Mercato
Tra i principali testimonial a favore della flat tax figurano certamente gli stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), tra i primi ad introdurre l’aliquota unica sui redditi personali. Ma le crescenti difficoltà economiche di questi paesi, e di alcuni altri del blocco dell’Europa orientale rappresentano un’opportunità per una indiretta analisi critica di questa tipologia di sistema fiscale. La premessa metodologica deve essere quella di invitare il lettore, sia esso specialista o meno, a non voler cogliere rapporti immediati di causa ed effetto tra fenomeni economici: sarebbe un grave errore. L’economia è una scienza sociale, analizza sistemi complessi entro i quali si svolgono processi assai imperfettamente modellizzabili, quali le scelte degli agenti economici.
Basti pensare a come la behavioral finance stia rimettendo in discussione l’assunto di razionalità degli agenti economici attraverso l’introduzione del concetto di distorsioni cognitive ed emotive, individuali e sociali, nell’assunzione di decisioni economiche. Allo stesso modo, dovrebbe essere del tutto evidente che non basta osservare un processo di sostenuta crescita compresente ad un sistema fiscale ad aliquota unica per affermare che tra i due esiste un rapporto di causalità diretta. Così, ad esempio, la forte crescita economica russa, che ha coinciso con l’introduzione di una flat tax al 13 per cento, è stata spiegata dal Fondo Monetario Internazionale anche in termini di forte aumento dei prezzi delle materie prime, petrolifere e non, e di aumento dei salari reali, mentre il forte incremento di gettito fiscale può essere spiegato, oltre che con la crescita, anche in termini di maggiore efficienza delle strutture preposte all’esazione dei tributi.
Anche l’altra tradizionale argomentazione a favore della flat tax (la semplicità amministrativa dal lato della compliance del contribuente), non rappresenta un punto decisivo. Basti pensare che, un paio di anni fa, il governo-ombra conservatore britannico, affascinato dalla flat tax come argomento di sicura presa sull’elettorato, dopo aver fatto due conti si accorse che l’introduzione dell’aliquota unica nel Regno Unito sarebbe stata un’idea politicamente suicida, visto che le forti semplificazioni fiscali introdotte in precedenza avevano già determinato un tasso medio d’imposta del 18,5 per cento sui 30 milioni di contribuenti britannici sul reddito, mentre l’introduzione di una flat tax a gettito invariato avrebbe richiesto un’aliquota unica del 23 per cento, causando una perdita netta al 90 per cento dei contribuenti. Come si può constatare da questo esempio, è la semplificazione fiscale il primo obiettivo a cui il legislatore deve tendere, ed essa può tranquillamente coesistere con una struttura di aliquote fiscali progressive, come dimostra il caso della Nuova Zelanda, che da alcuni anni gestisce robusti surplus fiscali.
Riguardo i paesi baltici, in Estonia si rileva inoltre una sproporzionata incidenza delle imposte indirette sul gettito fiscale totale e ciò potrebbe spiegare, in un contesto di inflazione ancora sostenuta, i vistosi incrementi della complessiva raccolta d’imposta. Considerazioni analoghe possono essere fatte, per la stessa Estonia e per la Slovacchia, in relazione al peso elevato dei contributi sociali, legati a salari nominali in crescita superiore al tasso d’inflazione. Analizziamo ora più da vicino i problemi strutturali di crescita delle economie baltiche, molti dei quali si ritrovano, in differente composizione, anche in altri paesi dell’Europa Centro-Orientale. Tali problemi sono essenzialmente tre:
1. Vincoli di capacità di offerta di lavoro, che sono un sottoprodotto di bassi tassi di fertilità di lungo periodo e/o di ampi flussi di emigrazione, che stanno producendo significativa inflazione salariale e surriscaldamento dell’economia. Ciò, a parità di ogni altra condizione, causa un aumento di gettito fiscale;
2. Dipendenza strutturale da finanziamento esterno, che è in parte il sottoprodotto dell’effetto di bassi livelli di risparmio interno, e che rappresenta un altro importante fattore che differenzia il blocco dei paesi dell’Europa Centro-Orientale da altri quali Cina e India, e che è alla base dei forti deficit delle partite correnti e quindi di potenzialmente elevati livelli di instabilità finanziaria;
3. Progressiva perdita di controllo sulla politica monetaria domestica a causa del processo di convergenza all’eurozona. Ciò, con o senza la presenza di formali meccanismi di peg valutario, rende pressoché impossibile un aggiustamento graduale (cioè indolore) attraverso il deprezzamento del cambio come alternativa ad una forte deflazione salariale. A ciò si somma poi un problema di bilancio delle famiglie causato dal diffuso utilizzo di indebitamento ipotecario in valute diverse da quella domestica. Ricordate cosa accadde ai mutuatari italiani in Ecu? I tassi erano bassi, se raffrontati a quelli sulla lira, ma il cambio tra le due divise era apparentemente stabile ed i debitori accorsero a frotte, prima di piangere calde lacrime a causa degli episodi di “deconvergenza” che caratterizzano questi processi.
Quindi, nelle repubbliche baltiche e in ampia parte dei 10 paesi dell’Est europeo (segnatamente Bulgaria, Romania e Polonia), è in opera un meccanismo perverso di squilibrio macroeconomico strutturale: i consumi domestici sono alimentati da forti afflussi di fondi esteri, sia nella forma di flussi bancari che guidano l’offerta di credito a buon mercato, sia nella forma di rimesse degli emigrati, che ne guidano la domanda. Al contempo, una significativa riduzione del tasso di fertilità sotto il tasso di sostituzione (in atto da un paio di decenni) ed un forte e sostenuto flusso emigratorio stanno strangolando l’offerta di lavoro proprio nel momento in cui la domanda del medesimo è in aumento. Il combinato disposto di tali fenomeni è dato dalla forte crescita dei salari reali, che alimentano consumi e bolle speculative, e generano deficit delle partite correnti e dipendenza da capitali esteri. La chiave di volta di questo gioco infernale è data dal peg implicito (cioè dal sostanziale aggancio) delle divise dell’Est Europa all’Euro.
Qualcuno si stupisce ancora del boom di gettito fiscale causato da simili condizioni di “surriscaldamento strutturale”? Qualcuno pensa ancora realisticamente che tale boom di gettito sia imputabile in misura significativa alla presenza di un regime di flat tax?
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