di Mario Seminerio
La crisi dei mutui subprime attualmente in corso sui mercati finanziari internazionali, e lungi dall’essere conclusa, sta sollevando alcune interessanti problematiche, destinate forse a rimettere in discussione la leadership statunitense nella statuizione delle “regole del gioco” sui mercati globali. Come ha scritto di recente il New York Times, politici, regolatori e specialisti finanziari fuori dagli Stati Uniti stanno cercando un ruolo nella supervisione di mercati, banche ed agenzie di rating statunitensi, dopo il crac dei subprime. L’argomentazione è lineare: gli Stati Uniti esportano prodotti finanziari, ma le perdite inflitte agli investitori di tutto il pianeta suggeriscono che i regolatori americani hanno fallito nel monitorare ed allertare gli investitori sui rischi.
La prima iniziativa volta a mettere “sotto tutela” le agenzie di rating è venuta dal presidente francese Sarkozy, che tenterà di far passare la propria dichiarazione di principio (ed evidentemente anche le prime linee guida) di una “armonizzazione” della supervisione regolatoria dei mercati. Ma Sarkozy non è isolato: la Germania vuole la nazionalizzazione delle agenzie di rating e migliori prassi di disclosure sulle strutture complesse di debito (come i CDO), i cinesi chiedono l’introduzione di standard per le asset-backed securities. A torto o a ragione, è diffuso il convincimento che questa crisi abbia segnato la fine del paradigma “unipolare” (ed unilaterale) di regolamentazione delle attività finanziarie internazionali, e che si stia andando verso una sua “multilateralizzazione” in seno ad istituzioni internazionali, dove gli Stati Uniti siano una delle componenti e non più l’entità che detta gli standard a cui il resto del pianeta si uniforma per prassi e riflesso dei rapporti di potere internazionale.
Come reagiranno gli Stati Uniti di fronte a questo attacco concentrico? Al momento, assistiamo a reazioni “tradizionali”, con la riaffermazione del principio secondo il quale occorre minore e non maggiore regolamentazione, oltre alla difesa di quella forma di orgoglio patriottico e para-nazionalistico noto come “eccezionalismo” statunitense. Non conosciamo la reale portata di questa crisi, che ipotizziamo comunque ampia e destinata a trasmettersi all’economia reale attraverso una restrizione generalizzata degli standard creditizi, ma non dobbiamo dimenticare che gli Stati Uniti sono ormai da tempo un “importatore strutturale” di capitali, a causa del crescente deficit delle partite correnti, e ciò potrebbe rappresentare una leva strategica per i non residenti per indurre le istituzioni finanziarie americane a più miti consigli, soprattutto ove si affermasse pienamente l’evoluzione dei modelli di sviluppo delle grandi economie emergenti dall’export ai consumi domestici.
Da molto tempo gli analisti di relazioni internazionali ipotizzano che gli Stati Uniti potrebbero vedere seriamente indebolita la propria leadership globale a causa dell’atteso riequilibrio del deficit delle partite correnti, che i libri di testo materializzano attraverso un aggiustamento internazionale di portafoglio, con conseguente deprezzamento del cambio e rialzo dei rendimenti di mercato espressi in dollari. Oggi, possiamo ipotizzare che tale indebolimento geostrategico potrebbe concretizzarsi anche attraverso la perdita di potere nella definizione degli standard internazionali sui mercati finanziari. Dopo l’overstretching militare iracheno, siamo di fronte ad uno stress da debito e finanziarizzazione. Il tempo dirà se siamo entrati o meno nell’era del ridimensionamento dell’impero americano, ridotto a “impero dei mutui”.
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