di Antonio Mele
Come atteso, Mario Draghi non ha avuto peli sulla lingua, durante le sue Considerazioni Finali, a delineare i problemi dell’economia italiana e le ormai arcinote soluzioni mai implementate. I commenti del giorno dopo concordano nel definire il suo discorso come ineccepibile e le sue proposte di politica economica come condivisibili, ma rimane forte il dubbio che verrà ascoltato. Questo per vari motivi, ma vorrei soffermarmi su uno in particolare che mi pare molto rilevante nel contesto italiano.
Qualche giorno fa, Vito Tanzi ha esposto in un breve articolo un problema fondamentale di tutte le democrazie moderne: quello del livello di alfabetizzazione economica della popolazione. In particolare, Tanzi sostiene che “…[i]l sostegno popolare alle riforme strutturali dipende dalle conoscenze di natura economica dell’elettorato di un paese. In democrazia, più sono diffuse, più è facile per il governo varare buone politiche”. A cittadini economicamente istruiti è più facile spiegare gli effetti di una politica, e questo chiaramente riduce il costo politico dell’impopolarità a cui un governo va incontro quando propone misure dure o radicali.
In Italia questo problema risulta essere molto grave. Tanzi si pone un quesito: “[…]come reagirebbero gli elettori a una legge che impedisse ai prezzi dei fiori di crescere per la festa della mamma o a San Valentino? Come reagirebbero a una politica che congelasse i prezzi, ma permettesse ai salari di continuare ad aumentare? La risposta è che probabilmente quanto più gli elettori sono ignoranti in economia, tanto più sono a favore di quelle politiche”.
L’argomento del “non è giusto”
La mediocrità dell’alfabetizzazione economica italiana si riscontra palesemente quando, ad una proposta di riforma o anche solo ad un ragionamento economicamente fondato, si oppone l’argomento del “non è giusto”: per cui, sarà anche vero che la popolazione italiana invecchia e quindi il carico previdenziale pubblico diventerà entro breve tempo insostenibile, ma “non è giusto” che a pagare i costi di transizione siano solo i lavoratori; ergo si invoca l’aumento pesante della tassazione sui “ricchi” (di cui manca una definizione ragionevole o perlomeno condivisa, si ricorderà il dibattito prima delle elezioni politiche dell’aprile 2006 tra Prodi e Bertinotti) o si blocca l’aumento dell’età pensionabile.
O ancora: è vero che l’università italiana è molto scadente, sia in termini di didattica che di ricerca, ma “non è giusto” che il suo miglioramento sia fatto pesare ai cosiddetti “precari” della ricerca (anche qui manca una definizione ragionevole: nelle università americane, qualsiasi assistant professor, che è il livello piú basso di docenza e ricerca, viene assunto a tempo determinato, normalmente tre anni con possibilità di rinnovo per altri 3 anni, e nessuno si è mai lamentato), che per anni si sono sacrificati e che ora dovrebbero vedere riconosciuto questo loro sacrificio. Quindi li assumiamo in massa.
L’argomento “non è giusto” è molto semplice e tipicamente è facile farlo capire e accettare da una audience poco avvezza al ragionamento economico. Ma è, come quasi tutti i ragionamenti non basati sui fatti, fallace.
Innanzitutto la giustizia o no di un provvedimento è giudizio personale morale, che niente ha a che fare con l’economia. Una riforma può essere ritenuta giusta da alcuni e ingiusta da altri, solo perché queste persone non condividono lo stesso insieme di valori etici, cosa perfettamente legittima in una società democratica come la nostra. Non solo: una persona può ritenere un provvedimento giusto o ingiusto a seconda del fatto che le conseguenze ricadano o no su di lui. Chiaramente, questo non è un parametro su cui basare la valutazione dell’impatto di una politica sulla società intera. Per cui, la (finta) liberalizzazione dei taxi è stata ritenuta fortemente ingiusta dai tassisti, mentre tutti gli utilizzatori di taxi si sono trovati perfettamente d’accordo con la nuova normativa (benché i risultati siano stati praticamente nulli).
Seconda questione: l’argomento “non è giusto” è tipicamente una asserzione ideologica che serve a nascondere fatti e dati che potrebbero invece contribuire a rendere la discussione più attenta ai problemi concreti, e a migliorare la situazione.
Facciamo un esempio concreto: il sistema universitario americano e italiano sono profondamente diversi. In particolare, il sistema italiano è in gran parte pubblico, con bassissime tasse di iscrizione universitarie, e accesso praticamente garantito a tutti senza nessun tipo di selezione all’ingresso, mentre il sistema statunitense si basa su una forte presenza di atenei privati, che al pari degli atenei pubblici hanno tasse di iscrizione molto elevate (dell’ordine delle decine di migliaia di dollari in molti casi) e con un sistema di selezione all’ingresso.
Il riflesso pavloviano del cittadino comune, quando si parla di sistemi universitari, è che quello americano sia profondamente “ingiusto”: con costi tanto elevati, solo i “ricchi” (sempre senza definire cosa voglia dire) possono andare all’università. Da noi, invece, tutti possono usufruire dell’educazione terziaria se vogliono.
Niente di più falso. Roberto Perotti, in un suo articolo su lavoce.info, ci informa che “il 24 per cento degli studenti universitari italiani proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; solo l’8 per cento proviene dal 20 per cento più povero. Nel Sud la disparità è ancora più evidente: il 28 per cento contro il 4 per cento”. Non proprio uno specchio di equità. Cosa avviene invece negli Stati Uniti? Uno studio del College Board ci informa che negli USA le differenze di reddito all’ingresso del college contano sino ad un certo punto: in generale, sembrerebbe che il reddito sia molto influente sull’iscrizione al college (come mostra la Figura 1 sotto, che corrisponde alla figura 6 nel testo linkato): solo il 50% circa degli studenti provenienti dalle famiglie appartenenti al 20% più povero della società si iscrive immediatamente al college appena finita la scuola superiore, contro l’80% dei ragazzi provenienti dalla famiglie nel 20% più ricco.
(per vedere la Figura 1, cliccare sopra)
Ma in realtà, se analizziamo i dati dividendo gli studenti per merito, otteniamo una foto della situazione molto diversa (si veda la Figura 2 sotto, che corrisponde alla figura 19a nel testo linkato): per i più bravi, quelli che hanno un punteggio nei test matematici tra i più elevati, le percentuali di iscrizione dei ragazzi appartenenti al 25% più povero e del 25% più ricco degli Stati Uniti sono rispettivamente dell’82% e del 96%.
Questo mostra come i capaci e meritevoli riescono, negli USA, a frequentare il college anche se molto più costoso che in Italia. Anzi, probabilmente, visti i dati di Perotti, negli USA il sistema funziona molto meglio da questo punto di vista.
(per vedere la Figura 2, cliccare sopra)
Un lavoro del premio Nobel James Heckman e Pedro Carneiro mostra che al massimo l’8% dei giovani americani che finiscono le superiori ha problemi a pagare il college (ha dei liquidity constraints, nel gergo tecnico) e che comunque l’effetto di tali vincoli è ridotto rispetto all’effetto delle cosiddette cognitive abilities (appunto, il talento individuale del ragazzo), e si riduce a zero praticamente quando si controlla per l’effetto del talento individuale.
Cosa ci insegna questo esempio? Due cose.
La prima, di stampo pessimista, è che in un paese dove i cittadini ragionano per luoghi comuni o per matrici ideologiche è molto difficile discutere pacatamente e con serietà di riforme e politiche economiche, poiché tipicamente l’argomento del “non è giusto” prenderà il sopravvento chiudendo la discussione.
La seconda, più costruttiva ed ottimista, è che, se si vogliono seguire i consigli di Mario Draghi contenuti nelle sue Considerazioni Finali, si deve spiegare alla gente in modo chiaro e oserei dire didattico come queste riforme influiranno sul loro benessere.
Convincere tutti, non solo i riottosi
Il maggiore problema che abbiamo avuto negli ultimi 15 anni circa è stato quello di politici che proponevano riforme con ricadute positive sull’economia nostrana, ma mancavano di spiegarne concretamente ai cittadini i benefici. Così, il governo precedente proponeva di passare a due aliquote fiscali nella tassazione sul reddito (e tendere verso una flat tax, ovvero una aliquota unica con una zona di esenzione totale dalle imposte per i redditi bassi) senza spiegare i benefici di una tale proposta. In tal modo, i contrari a tale sistema fiscale avevano gioco facile a distruggere la riforma proposta e a bollarla come “ingiusta”. Riuscivano addirittura a raccogliere i dati e le analisi simulate di alcuni economisti che mostravano come tale riforma aumentava la disuguaglianza, spostando il carico fiscale dai ricchi ai poveri. Il risultato era l’avversione del cittadino comune per tale tipo di riforma, esattamente perchè “non è giusta”.
Dei benefici di un sistema fiscale semplice e con aliquote basse abbiamo parlato in varie e numerose occasioni su Epistemes, e non vogliamo ripeterci; il lettore interessato trova il materiale relativo nei nostri archivi in alcuni articoli del sottoscritto, di Andrea Asoni, di Mario Seminerio e di Pierangelo de Pace. Quello che mi preme sottolineare è questo: ad un economista dovrebbe sembrare ovvio che modificare un sistema fiscale con forte progressività, verso uno tendente alla flat tax, generi nel breve periodo maggiore disuguaglianza nei redditi disponibili, poiché effettivamente è uno spostamento di carico fiscale dai contribuenti più abbienti a quelli meno abbienti. Tutti i modelli empirici citati sopra si basano appunto su un modello statico dell’economia. Pertanto è ovvio che enfatizzino gli effetti statici della riduzione della progressività. Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio ad un economista che gli effetti statici sono solo una parte della storia: quelli che contano maggiormente sono quelli dinamici, ovvero gli effetti che si dispiegano nel tempo, in forma di maggiori incentivi all’accumulazione di capitale umano, di minore evasione, di maggiore accumulazione di capitale, di incentivi alla creazione di imprese, di minor tempo da dedicare alle pratiche fiscali…
Per quantificare questi effetti, è necessario utilizzare un modello dinamico dell’economia. Usando un modello statico, si sta per così dire “imbrogliando” il cittadino ignorante di economia.
Esistono alcuni metodi per stimare gli effetti dinamici delle politiche fiscali (per esempio il dynamic scoring utilizzato nel budget americano). Ci si aspetterebbe che un governo che voglia introdurre un sistema fiscale con aliquota unica metta al lavoro i suoi economisti per stimare gli effetti di tale riforma con metodi dinamici, spiegando al pubblico che le stime basate su metodi statici sono meno attendibili. Ci si aspetterebbe che un governo vada alle trasmissioni televisive per dare informazioni convincenti al pubblico sulla bontà della flat tax.
Beh, tutti ricorderete come è andata invece. Con la conseguenza, questa sì di lungo periodo, che il cittadino poco economicamente istruito ora è assolutamente contrario alla flat tax.
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