di Andrea Gilli
I recenti dibattiti pubblici e parlamentari sulle missioni italiane all’estero richiedono una seria riconsiderazione dell’impegno dell’Italia in chiave internazionale. Negli anni passati, il nostro Paese ha infatti mostrato una solerzia abbastanza inusitata nel mandare i propri soldati all’estero in missioni di pace, peace-keeping o peace-enforcing. Per varie ragioni però i risultati sono stati al di sotto delle attese – non ultima la paradossale situazione nella quale, nonostante l’appena citata solerzia, il Paese si è spesso spaccato proprio su queste missioni: in breve, la maggioranza del momento mandava le truppe, ma l’opposizione vi si opponeva, in una ripetizione a parti invertite della scena che ha una sapore più di tragedia che non di farsa.
Come abbiamo visto sia nel caso della missione in Iraq che più recentemente con la missione in Afghanistan, queste operazioni restano infatti sempre in balia del voto parlamentare, e nell’incertezza della dialettica politica interna – con conseguenze devastanti sulla credibilità del nostro Paese, e pertanto sulla loro stessa utilità.
Iniziate per contribuire a rafforzare la credibilità internazionale dell’Italia e per poter guadagnare dei punti da spendere in altri tavoli negoziali fondamentali per i nostri interessi nazionali (riforma dell’ONU, evoluzione dell’UE, trasformazione della NATO, trattative con l’Iran – Paese del quale l’Italia è il primo partner commerciale, etc.), le missioni internazionali a cui partecipano le nostre forze armate finiscono invece per destabilizzare la stessa politica interna e in definitiva per rivelarsi un problema, piuttosto che una risorsa.
Tutto ciò non può che suggerire la necessità di riconsiderare seriamente la nostra partecipazione alle missioni internazionali, sia per motivi di efficacia che di credibilità.
Riconsiderare non significa abbandonare: significa, appunto, ri-considerare. Ripensare, riflettere su queste missioni. Nei precedenti mesi abbiamo assistito a tre episodi alquanto discutibili, e dai quali è impossibile prescindere. Essi riguardano la missione in Iraq, la missione in Libano e per ultima la missione in Afghanistan.
Per quanto riguarda la missione in Iraq, è noto che il nostro Paese si è ritirato a fine 2006. Ciò che qui si vuole sottolineare sono le implicazioni di tutta la missione. L’Italia decise di mandere i suoi contingenti in Iraq per contribuire alla stabilizzazione della regione meridionale del Paese. Quella scelta non fu mai apprezzata dall’opposizione di allora, che infatti mise tra i punti del proprio programma di governo la fine di quell’operazione. Fine che in effetti avvenne, nel dicembre 2006, ma in realtà sulla base delle decisioni del precedente Governo, quello Berlusconi, che si mosse in tal senso in parte rassicurato dai miglioramenti sul campo e in parte (la grossa parte) perchè timoroso che la nostra presenza in Iraq potesse portare un’escalation di violenza con l’avvicinarsi delle elezioni – e quindi influire sull’esito elettorale.
Per quanto riguarda il Libano, abbiamo assistito ad una scena a parti invertite. Mentre la maggioranza decideva l’invio delle truppe, l’opposizione si mostrava particolarmente reticente, per via delle regole di ingaggio e soprattutto per la natura dell’intervento che – secondo numerosi esponenti del centro-destra – sarebbe stato eccessivamente “equivicino”. Come ebbe a dire l’on. Berlusconi, era necessario andare in Libano a combattere gli Hizbullah, non a camminarci insieme. Anche se, va detto, su quella missione ci fu un grado di intesa superiore.
Infine, vi è la missione in Afghanistan che è stata recentemente al centro della cronaca per via del rifinanziamento parlamentare. La missione ha sin dall’inizio avuto il sostegno dell’opposizione, ma come nel più recente caso del Libano, su alcuni punti non è mai stato possibile approfondire, quali per esempio le regole d’ingaggio dei nostri militari e gli strumenti bellici a loro disposizione.
Queste sono alcune delle missioni in cui è impegnato il nostro Paese. Il punto che ci sembra degno di nota riguarda il fatto che tutte e tre sono state fortemente influenzate dall’esito o comunque dalle dinamiche della politica interna, che di fatto ha influito notevolmente tanto sui loro risultati che sui benefici che da esse abbiamo ricavato (finora pochi, o comunque inferiori alle attese).
Nel caso dell’Iraq, infatti, ci siamo ritirati nel momento di maggiore debolezza dell’alleato americano – ovvero quando la nostra posizione negoziale era al suo apice. Poichè non eravamo andati a Nassirya per il bene degli iracheni (o almeno, non certamente solo per quello), ma per rafforzare il nostro ruolo internazionale, la scelta è stata, a tutti gli effetti, disgraziata. Dubitiamo che, da questa angolatura, il ritiro sia ancora motivo di vanto come invece sembrano fare entrambe le coalizioni.
Nel caso del Libano siamo di fronte ad un quasi-Iraq. Nel senso che finora la missione è andata abbastanza bene perchè, di fatto, non abbiamo dovuto fare molto. La famosa passeggiata con Hizbullah, da questo punto di vista, è stata molto utile. Il problema è che, nel caso di un cambio di governo, gli attori della zona conoscono molto bene le debolezze della nostra classe politica, e quindi le potrebbero verosimilmente utilizzare a nostro discapito. Se quindi finora le nostre truppe non hanno avuto alcuna difficoltà per via dell’intermediazione di Hizbullah, non è difficile pensare che questa intermediazione possa venire meno con un Governo molto più schierato accanto ad Israele – o comunque non intenzionato a stabilire alcun dialogo con l’organizzazione di Nasrallah.
Infine, il caso dell’Afghanistan. Condivisa ampiamente dai due schieramenti, la nostra missione non è mai riuscita ad ottenere delle regole di ingaggio e dei mezzi adeguati alla situazione in loco. Se negli anni passati ciò non era un problema eccessivo, anche se comunque rilevante, di fronte alla progressiva recente avanzata dei talebani, la nostra incapacità operativa rischia di diventare un grave ostacolo tanto per la sicurezza delle nostre truppe che per la migliore riuscita della missione medesima. Il rischio è infatti che i soldati italiani passimo dal difendere gli afghani, al difendere se stessi, fino all’essere difesi dagli altri distaccamenti NATO. Da risorsa diverremmo un problema – che ciò serva dal Paese è tutto da vedere.
In generale, dunque, sembra assolutamente necessario riconsiderare e ripensare le missioni estere. I recenti governi hanno convenuto sull’utilità e sull’opportunità di mandare delle nostre truppe in giro per il mondo con il fine di ricavare un qualche vantaggio a livello internazionale. Ma Governo e opposizione, nelle diverse fasi (e quindi spesso a parti alternate) non sono mai riusciti a trovarsi completamente d’accordo su queste missioni – e la cosa ha un qualcosa di paradossale. La necessità di opporre l’avversario politico sembra infatti aver celato la vicinanza di intenti e di vedute tra le due coalizioni, che invece avrebbe potuto rafforzare sensibilmente il nostro ruolo internazionale, con significative ricadute positive sul Paese tutto, e quindi su entrambi gli schieramenti.
Il problema, purtroppo, è di difficile soluzione, in quanto sarebbe necessaria una cultura politica che evidenzi il ruolo sopra le parti della politica estera. Cultura politica che manca. Il caso dell’Iraq è esemplare: la missione, in termini tanto tecnici che politici, non si differenzia in modo sostanziale da quella in Libano. Per motivi di politica interna si è invece deciso il ritiro (sia ben chiaro: il primo a decidere quel ritiro fu l’Esecutivo Berlusconi): ritiro che alla fine ha neutralizzato tutti i vantaggi acquisiti sino allora in quanto è avvenuto nel momento in cui il nostro ruolo relativo era determinante. In modo analogo si può parlare dell’Afghanistan.
In conclusione, dunque, i Governi che si succedono convengono sull’utilità di mandare le nostre truppe all’estero, ma non riescono a mettersi d’accordo sul fatto che condividono gli stessi obiettivi. La strada più ovvia consisterebbe nel siglare un memorandum d’intenti nel quale i maggiori partiti stipulano un gentlemen’s agreement in cui fissare alcuni punti condivisi sulla partecipazione alle missioni militari all’estero (e ciò rafforzerebbe immediatamente il nostro standing presso gli alleati).
Poichè la politica estera è verosimilmente costretta a rimanere prigioniera della politica interna, probabilmente ciò che conviene fare, o almeno ciò che gli elettori dovrebbero richiedere ai loro rappresentanti, è semplicemente maggiore modestia da parte dei loro Governi. Se gli Esecutivi che si succedono non riescono a trovare dei punti di incontro su questi temi, le risorse che spendiamo in queste operazioni sono destinate a risultare vane (e con loro le vite umane che spesso vengono perse). Proprio ciò che sta succedendo.
Allora, fin quando non si troverà questa comunione di intenti, non vi è ragione, senso e logica, nel mandare i nostri soldati in giro per il mondo – se non quello di usare strumentalmente le loro vite per motivi di politica interna. Il che significa che non c’è ragione, senso e logica per farli partecipare a queste missioni.
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