La ripresa italiana: fu vera gloria?

di Mario Seminerio

Nei prossimi giorni l’Istat pubblicherà il dettaglio dei contributi alla crescita del prodotto interno lordo italiano da parte di consumi, investimenti, scorte e commercio estero. Sarà un’ottima occasione per capire se il dato di crescita apparentemente molto robusta dell’economia italiana possiede un fondamento strutturale, e non solo congiunturale. Per ora, possiamo solo constatare che sorprese al rialzo si sono verificate nella crescita di tutti i grandi paesi di Eurolandia. Ad esempio, il pil tedesco è cresciuto dello 0.9 per cento trimestrale, e del 3.7 per cento annualizzato, contro attese rispettivamente per un più 0.6 e più 3.2 per cento; quello francese dello 0.7 per cento, a fronte di attese poste a più 0.5 per cento; quello spagnolo dell’1.1 per cento trimestrale e del 4 per cento annualizzato, battendo stime di consenso poste rispettivamente a più 1 e più 3.9 per cento. Per l’intera Eurozona, la crescita è stata dello 0.9 per cento trimestrale, contro attese per un più 0.6 per cento ed un dato del terzo trimestre pari a più 0.5 per cento.

Come si nota, la crescita è robusta e superiore alle attese di economisti e governi, ed appare determinata da condizioni di politica monetaria ancora espansive, che producono tassi d’interesse reali ancora bassi; ma anche da ristrutturazioni aziendali, investimenti in tecnologia e mercati del lavoro mediamente più flessibili. La crescita europea appare guidata dalla locomotiva tedesca, sulla spinta di una forte domanda estera (soprattutto per beni d’investimento, proveniente soprattutto dall’Asia) e domestica, quest’ultima trainata dall’effetto di anticipazione di acquisti di beni durevoli di consumo indotta dall’aumento dell’Iva (dal 16 al 19 per cento), scattato il primo gennaio.

Per l’Italia, attendiamo i dati disaggregati sulla contribuzione, ma c’è motivo di ritenere che parte della crescita sia da attribuire alla forte domanda tedesca di beni d’investimento, sotto forma di prodotti finiti ed intermedi. Proprio questi elementi eccezionali, soprattutto l’anticipazione della domanda tedesca di beni durevoli, letteralmente “presa a prestito” dal primo e secondo trimestre dell’anno corrente, oltre alla presenza di restrizioni fiscali in Italia e Germania stimate in circa l’1 per cento del Pil, potrebbero finire col ridimensionare, nelle prossime settimane, la soprendente performance dell’Area in generale ed italiana in particolare.

Difficile, quindi, attribuire paternità governative all’attuale momentum della crescita italiana. Restano alcuni dati oggettivi: in primo luogo, il nostro paese continua a crescere meno della media europea, anche a causa dei suoi elementi di attrito strutturale allo sviluppo: rigidità del mercato del lavoro, specializzazione in settori maturi, bassa crescita della produttività, quadro normativo ed istituzionale avverso alle imprese, che si esprime anche attraverso una pressione fiscale sulle medesime superiore alla media europea.

Il secondo elemento che dovrebbe mitigare gli entusiasmi lo ha segnalato lo stesso ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa: le aziende italiane stanno continuando a perdere quote di mercato nel commercio internazionale. Lo dimostra anche il saldo della nostra bilancia commerciale non tanto per il vistoso deterioramento del suo deficit complessivo nel 2006 (passato da 9.4 a 21.1 miliardi di euro), quanto per la stabilità su bassi livelli (33 miliardi di euro) dell’avanzo non-oil in un momento in cui la domanda mondiale sta crescendo vigorosamente, ma evidentemente non nei settori tradizionalmente presidiati dal Made in Italy.

Non è quindi tempo per celebrazioni: non c’è in corso nessun “piccolo, silenzioso boom”, per usare l’espressione dei sempre immaginifici ricercatori del Censis, ma solo una crescita congiunturale più rapida del previsto, che lascia inalterate le fragilità strutturali del nostro paese, anche se è finora riuscita a mascherare i danni prodotti dalla stretta fiscale di una Finanziaria che ha inasprito la tassazione senza neppure scalfire i principali centri di spesa improduttiva del nostro sistema economico. In assenza di riforme strutturali reali, i nodi verranno al pettine al momento del rallentamento della congiuntura internazionale.


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