di Pierangelo De Pace
Il tenore di vita di una nazione dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi. La sua capacità produttiva, per dato livello tecnologico, è determinata in larga parte da quanto gli agenti economici che vi operano siano propensi a risparmiare e ad investire per il futuro. Durante gli ultimi mesi abbiamo tutti assistito a dibattiti parlamentari ed extra parlamentari riguardanti la possibilità che sia presentata ed approvata una sostanziale riforma della legge sulla tassazione del risparmio (o delle cosiddette rendite finanziarie). Data la premessa di questo articolo, è lecito chiedersi se sia conveniente per il nostro Paese ed in senso assoluto che questo avvenga e, in caso di risposta affermativa, in quale misura.
Esistono ovviamente argomenti a favore ed argomenti contro un’eventuale riforma della legislazione corrente in materia. Cercherò di presentare in maniera accessibile ed esasutiva entrambe le prospettive.
Il tasso di risparmio di una nazione è una variabile chiave per la prosperità e la ricchezza di lungo periodo dei suoi cittadini. Quando gli individui risparmiano una elevata percentuale del proprio reddito e lo stato non incorre in deficit di bilancio sistematici e di notevole entità, nell’economia si rendono disponibili maggiori risorse da destinare agli investimenti reali (la grandezza di collegamento fondamentale tra domanda ed offerta; ciò che trasforma il comportamento individuale, del consumatore e/o dell’impresa, in opportunità di crescita futura). In altre parole, si rende possibile un maggiore investimento in capitale fisico inteso in senso lato (stabilimenti, macchinari, ricerca, tecnologia). Uno stock ampio di capitale fisico, soprattutto se altamente produttivo, determina un innalzamento della produttività del lavoro (si pensi ad esempio alla differenza tra un impiegato che non abbia a disposizione un computer ed un altro che può svolgere lo stesso tipo di mansione utilizzando le più moderne tecnologie), dei salari individuali e del reddito totale della nazione. Non è dunque sorprendente scoprire che esiste una forte correlazione tra tassi di risparmio nazionale e varie misure di crescita economica e ricchezza. Se i tassi di di risparmio complessivo non sono sufficienti a sostenere i necessari livelli di investimento per il sostenimento della crescita e dello sviluppo futuri, una data nazione è costretta a rinunciare a quegli investimenti e a ridimensionare i propri progetti o a rivolgersi ai mercati finanziari esteri per cercare finanziamenti altrove. L’indebitamento che ne deriva non è di per sè un male: in linea di massima, se mantenuto entro livelli accettabili e sostenibili, permette l’esecuzione materiale di investimenti altrimenti non realizzabili contando soltanto sul risparmio interno. Il ricorso sistematico e prolungato al prestito estero, che dovrà prima o poi essere ripagato insieme ai relativi interessi sul capitale, può tuttavia determinare equilibri subottimali che vanno corretti attraverso l’incentivazione del risparmio nazionale.
Più volte in questo sito, parlando di altri argomenti, si è messo in evidenza come gli individui rispondano sempre e comunque agli incentivi che vengono loro proposti. Gli incentivi ed i disincentivi fiscali non fanno eccezione, anche se esiste un certo disaccordo tra gli accademici su quale sia l’entità effettiva della risposta individuale ed aggregata. Per esempio, almeno in linea di principio, se la legislazione fiscale in tema di risparmio in un determinato Paese rende il risparmio stesso più conveniente (ad esempio tassando poco i corrispondenti rendimenti), è naturale aspettarsi che gli individui comincino a risparmiare una più ampia frazione del proprio reddito con la prospettiva di poter aumentare i consumi futuri propri e dei propri eredi (assumendo, ad esempio, un certo grado di solidarietà intergenerazionale tra genitori e figli). Maggiore risparmio oggi si dovrebbe tradurre infatti in livelli più elevati di investimenti produttivi ed in un futuro più prospero.
Il livello attuale di tassazione del risparmio in Italia prevede fondamentalmente due aliquote: una del 27% applicata su depositi e conti correnti bancari e postali ed una, più conveniente, del 12.5% applicata su titoli di stato, obbligazioni private delle maggiori tipologie; plusvalenze e dividendi derivanti da partecipazioni non qualificate nel capitale di rischio delle società, risultati della gestione di fondi comuni. In sostanza, si può certamente parlare di tassazione più blanda rispetto a quella che grava sui redditi da lavoro e, cosa di non secondaria importanza, più lieve rispetto alla media generale europea. L’attuale governo sembra aver predisposto un piano per innalzare l’aliquota più bassa ed abbassare quella più alta fino al raggiungimento di un’aliquota media intorno al 20%. L’uniformazione in sè delle due aliquote è cosa buona: serve a non distorcere le scelte di risparmio e a non favorire un tipo di investimento finanziario rispetto ad un altro a parità di rendimento nominale pre-imposta. Ma la manovra ha anche come obiettivo la creazione di maggior gettito fiscale: detto in maniera assai semplice e senza ulteriori approfondimenti (rimando per questo ai contenuti di altri articoli in materia già apparsi su questo sito), in linea teorica il provvedimento potrebbe condurre ad una contrazione del risparmio complessivo, se si osserva che la maggior parte degli attuali investimenti finanziari nazionali confluisce nella categoria di attività finanziarie tassate al 12.5%; e potrebbe colpire gran parte di quei cittadini appartenenti ai ceti medi e bassi che non hanno la possibilità, nè talvolta le conoscenze adeguate, per poter diversificare il proprio portafoglio investendo magari in attività estere su mercati esteri soggetti a regimi di tassazione diversi.
Tra le altre cose, durante la scorsa legislatura, fu abolita la tassa di successione. Nella Finanziaria per il 2007 questa tassa risulta di fatto reintrodotta, pur con sostanziali modifiche rispetto a quella esistente qualche anno fa, soprattutto nella parte riguardante le soglie di esenzione. Occorre tuttavia notare il fatto che, qualunque sia la soglia stabilita, una tassa di questo tipo scoraggia di fatto l’accumulazione di capitale ed il risparmio incentivando il consumo corrente. In verità bisognerebbe chiedersi quante persone saranno effettivamente colpite da questa imposta e se una tassa siffatta sia davvero necessaria per creare gettito senza alterare il profilo intertemporale di consumo e risparmio, ma è questa un’analisi che esula dagli intenti di questo mio breve articolo.
È importante, in ogni caso, mettere in evidenza la seguente osservazione: in larga parte, la preoccupazione riguardo ai livelli totali di risparmio nazionale è motivata dal desiderio di assicurare a sè stessi ed alle generazioni future ricchezza e prosperità. È quanto mai strano, dunque, che si pensi ad una riforma che, in un modo o nell’altro, finirà con il disincentivare tendenzialmente il risparmio privato. Da stabilire in che misura, ma da qui in poi si entra in una zona grigia di incertezza la cui natura, tuttavia, andrebbe valutata attentamente senza il filtro dell’ideologia e dell’obiettivo della redistribuzione a tutti i costi.
Innalzare i tassi di risparmio (pubblico attraverso la creazione di surplus di bilancio, e privato attraverso la sua incentivazione) è in linea di massima cosa desiderabile, ma bisogna tener conto del fatto che non è questo il fine ultimo della legislazione fiscale. In senso lato chi governa dovrebbe anche progettare un sistema che sia in grado di assicurare una distribuzione più equa della pressione fiscale complessiva. Il problema, più volte sollevato anche in Italia, dei regimi fiscali che incentivino l’investimento finanziario risiede nel fatto che tali sistemi tendono a ridistribuire parte della pressione fiscale (a parità di spesa pubblica) su coloro che meno hanno la possibilità economica e finanziaria di intraprendere simili progetti di risparmio e che possono contare esclusivamente o quasi su redditi da lavoro.
Esiste un dato empirico importante: le unità familiari a reddito più elevato tendono a risparmiare una frazione più consistente del proprio reddito disponibile rispetto alle unità meno abbienti. Di conseguenza, qualsiasi sistema fiscale che favorisca direttamente il risparmio tende automaticamente a favorire le classi più ricche. A questo va aggiunto il fatto che, sulla base di una vasta letteratura economica in materia, la propensione al risparmio sembra essere relativamente inelastica al tasso di interesse: aumenti anche sostanziali del tasso di interesse (che di per sè dovrebbero favorire il risparmio) determinerebbero incrementi relativamente modesti del risparmio complessivo. Chi si è dichiarato a favore dell’introduzione di un’aliquota unica al 20% in Italia ha fatto sostanzialmente leva su questo argomento (pur proponendolo in un più ampio contesto di motivazioni talora inesatte, talora capziose): un inasprimento della pressione fiscale sui redditi da capitali dovrebbe avere, dunque, effetti redistributivi benefici senza alterare in maniera sostanziale gli attuali livelli di risparmio privato.
La teoria economica non risolve completamente questo dilemma: l’evidenza empirica sembra affermare quanto sopra, ma le stesse politiche fiscale possono avere effetti complessivi diversi a seconda della situazione contingente in cui vengono stabilite ed applicate. Il risultato finale di un’innalzamento dell’aliquota sui redditi da attività finanziarie, che determinerebbe un abbassamento del tasso di interesse effettivo che va a remunerare l’investimento, è determinato da due diversi effetti contrastanti: da un lato il cosiddetto effetto di sostituzione, dall’altro l’effetto di reddito. Un tasso di rendimento minore può indurre a preferire il consumo corrente al risparmio ed all’investimento (finanziario e, indirettamente, reale), i quali invece garantirebbero livelli più elevati di consumo in futuro. L’effetto di sostituzione determinerebbe quindi una caduta dei risparmi privati a fronte di un inasprimento della tassazione corrispondente. Dall’altra parte, invece, l’effetto di reddito tende ad agire nella maniera opposta: a tassi di rendimento effettivi più bassi corrisponderebbe un aumento della necessità di risparmiare dovuta alla riduzione della remunerazione del risparmio già investito, nel caso in cui si desiderasse lasciare inalterate le proprie prospettive di consumo futuro.
Parlando di risparmio, però, è necessario sottolineare un particolare importante, già emerso più volte in questo breve discorso ma ancora non esplicitato in maniera esaustiva. Il risparmio complessivo di un Paese non è dato solo dal risparmio privato. È invece la somma di risparmio privato e risparmio pubblico, dove per risparmio pubblico si intende bilancio statale, vale a dire gettito fiscale al netto della spesa pubblica. Per poter innalzare i livelli di risparmio totale nazionale è necessario, indipendentemente dalla politica fiscale prescelta in tema di tassazione dei redditi da capitale, produrre avanzi di bilancio che possano sostenere gli investimenti privati nel breve e nel lungo periodo. Più precisamente, il risparmio nazionale è dato dalla differenza tra reddito complessivo (o Pil) e consumi pubblici e privati. La Finanziaria che sta per essere approvata anche alla Camera dei Deputati, contrariamente alle dichiarazioni estive e di campagna elettorale, non pone rimedio al problema della spesa pubblica che continua ad espandersi (il contenimento del deficit viene raggiunto, come risaputo, in larga parte attraverso un inasprimento fiscale generalizzato). Piuttosto che intervenire anche sul versante della tassazione del risparmio, in una contingenza come quella odierna, in cui le tasse sui redditi da lavoro sono già state ampiamente innalzate per buona parte della popolazione, e con l’incognita degli effetti complessivi che, come visto, sono tutt’altro che scontati e prevedibili, l’attuale governo farebbe bene a procedere attraverso tagli sostanziali alla spesa pubblica corrente. I tagli sarebbero impopolari e potrebbero costare molti voti, forse più di quanti ne siano già stati persi dall’attuale coalizione di maggioranza dalle scorse elezioni ad oggi (almeno stando ai più recenti sondaggi), ma servirebbero a rilanciare l’economia del nostro Paese attraverso il ridimensionamento strutturale dei conti pubblici (del quale, allo stato attuale delle cose, non v’è traccia), l’innalzamento del tasso di risparmio utile a finanziare gli investimenti privati produttivi e migliorativi della struttura economica nazionale ed il miglioramento della posizione finanziaria con l’estero (oggi vicina al pareggio), delle partite correnti e, di riflesso, delle esportazioni nette.
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