di Daniele G. Sfregola
In un arco temporale relativamente breve – otto mesi, all’incirca – il vento politico all’interno dell’amministrazione Bush ha cambiato direzione. Le enormi difficoltà incontrate nell’operazione di State building in Iraq, le crisi nucleari iraniana e nordcoreana, l’impotenza dinanzi all’offensiva diplomatica russa in Asia Centrale e cinese in Africa, la “ribellione” dell’establishment militare americano a Donald Rumsfeld, la sconfitta alle elezioni di mid-term e le dimissioni del segretario alla Difesa, hanno progressivamente eroso il rimanente capitale di credibilità interna del pensiero neoconservatore e dei suoi epigoni. Non si spiegherebbe la corsa a riparare le falle dell’anatra zoppa che risiede alla Casa Bianca, consapevole di doversi piegare ad una diarchia de facto con i democratici nella gestione della politica estera per i prossimi ventiquattro mesi.
L’arrivo nella compagine di governo di un personaggio del calibro di Robert Gates, la ritrovata influenza del vecchio volpone della politica americana che risponde al nome di Henry Kissinger, la centralità nel dibattito della élite bipartisan di cui gode oggigiorno James Baker e il suo Iraq Study Group, testimoniano la crescente riemersione della cultura politica realista e dei suoi massimi rappresentanti nazionali dagli Inferi della condanna morale, in cui in modo tipicamente americano la stessa era stata relegata dal neoconservatorismo montante all’indomani dell’11 settembre.
Ma ciò a cui si assiste in queste settimane, e che merita una breve riflessione, è la reazione sul piano culturale della vecchia guardia neoconservatrice alla fatalità degli eventi e all’irrimediabile sequela di sconfessioni empiriche che la lezione irachena, e più in generale mediorientale, sembra imporre alle loro sbandierate certezze. Ciò che colpisce, in particolare, è la reiterazione di un vecchio schema vincente della retorica dei Bill Kristol, dei Robert Kagan e del restante filotto di pensatori neocon. Dinanzi alla prevalenza politica contingente degli storici avversari interni al partito repubblicano, questi sollevano l’identico paradosso concettuale, accompagnato dall’identica condanna morale, che utilizzarono ben trenta anni or sono per cassare definitivamente la conduzione più spavaldamente realista che gli Stati Uniti abbiano mai tenuto nel corso della loro storia.
Le obiezioni alla ricetta realista sono profondamente legate all’identità politica statunitense: l’eccezionalismo di un tempo, rimasticato in chiave nazionalista ed interventista, così come questo ensemble si è andato forgiando nei lunghi anni di Guerra Fredda. In fondo, il rifiuto dell’interpretazione geopolitica delle dinamiche di politica estera e il connesso rigetto di una relativizzazione delle politiche su scala regionale (“valori universali, politiche particolari” è uno dei massimi insegnamenti di Kissinger) si fonda sull’archetipo etico delle risorse inesauribili dell’America, sull’identità tra interessi americani e interessi dell’umanità, sull’universalità dei valori che permea le relative politiche, da cui deriva l’accostamento del movimento in esame al filone idealista delle relazioni internazionali.
E’ l’ideale che fa la politica, in un continuum che non ammette adattamenti al contingente o al ragionamento tattico. Questo profilo si rivela quindi nella reiterazione precedentemente accennata. Questa si manifestò nella metà degli anni Settanta, allorquando lo scandalo del Watergate, la rivoluzione strategica della détente kissingeriana, la coesistenza competitiva e la diplomazia tripolare che coinvolse la Cina, si univano in un giudizio morale connotato da forti riflessi ideologici e comunque coerente con le più viscerali tradizioni americane. Affermò il sindacalista George Meany, figura assai vicina ai democratici futuri neoconservatori dell’epoca: “E’ indispensabile conferire un senso di risolutezza morale alla politica estera di questo paese”. E ancora il senatore democratico Henry Jackson, padre putativo dei neocon che verranno: “Una politica estera morale è l’unica realista. Promuove i diritti umani per difendere meglio l’interesse nazionale”. Con queste parole, si tacciò di immoralità e di tradimento ai valori americani la diplomazia che era riuscita ad evidenziare la crepa apertasi all’interno del blocco comunista tra Cina ed Unione Sovietica sul finire degli anni Cinquanta e a volgerla a proprio favore geopoliticamente.
In questo approccio risaltano due leit-motiv retorici del ragionamento neoconservatore che sono stati puntualmente recuperati da Kristol e Kagan sul Weekly Standard in questo momento di nuova crisi del movimento a cui appartengono. Affermano i due: “Il ‘realismo’ è diventata una sorta di codice per la resa in Medio Oriente degli interessi e degli alleati americani, così come dei principi americani”. La pragmaticità delle politiche particolari – un’accortezza dovuta alla complessità delle vicende umane e alla limitatezza delle risorse diplomatiche, anche quelle della più grande potenza del mondo – diviene moralmente inaccettabile e strategicamente irreale.
Allora fu moralmente inaccettabile e strategicamente “irreale” il voler negoziare con Mosca e Pechino, il ridurre gli armamenti per gestire la superiorità geopolitica statunitense e l’accettare accomodamenti politici contingenti in funzione della vittoria futura. Oggi, in perfetta analogia, è moralmente inaccettabile e strategicamente “irreale” il voler negoziare con Teheran e Damasco, il differenziare le tipologie di terrorismo formulando politiche specifiche in risposta a specifici pericoli alla sicurezza, l’accettare accomodamenti politici contingenti in funzione della vittoria futura.
La storia della Guerra Fredda testimonia il buon senso e la preveggenza di chi, da George Kennan in poi, ha saputo mantenere fermi i propri valori – e la loro universalità – ragionando in termini specifici della realtà, dei rapporti di forza, delle opzioni strategiche che via via la lettura geopolitica offriva. Il contenimento del moloch sovietico portò infine alla sua implosione. Ma, di mezzo, ci furono innumerevoli accordi col medesimo. Stringere la mano al Diavolo non significa arrendersi, ma conoscerlo meglio per batterlo prima. A quanto pare, il naufragio delle illusioni neocon in terra mesopotamica non si è ancora rivelato ai suoi stessi autori.