Perché bisogna trattare con l’Iran

di Andrea Gilli e Mauro Gilli

Dopo il grande scossone delle elezioni di mid-term tenutesi la scorsa settimana, anche la Casa Bianca ha iniziato a ragionare sull’opportunita’ di trattare con Tehran. Nonostante alcuni tentennamenti, la strada verso il dialogo con gli ayatollah pare essere sempre più vicina, almeno stando ad alcune indiscrezioni.

Al momento sono ancora in molti, dentro e fuori l’amministrazione, ad opporsi ad una tale opzione, ma è ragionevole credere che con il passare del tempo la loro voce diverra’ sempre meno influente. Se non altro perchè le opzioni che costoro propongono non sono realistiche. Conviene pertanto considerare i vantaggi che il dialogo con Teharan potrebbe portare; e, allo stesso tempo, gli errori di valutazione che i suoi oppositori compiono.

Il dialogo e i suoi nemici

Innanzitutto le proposte avanzate da coloro che si dichiarano per la fermezza si basano su argomentazioni largamente infondate. Tra gli interventi più recenti, merita sicuramente la nostra attenzione l’articolo che Robert Kagan e William Kristol hanno scritto sul Financial Times di lunedì scorso. I due autori sostengono che solo un maggiore dispiegamento di truppe in Iraq possa riportare stabilità nel Paese, mentre si dichiarano “scettici” della reale volontà di Iran e Siria a cooperare per il raggiungimento di questo obiettivo. Inoltre, aggiunge la coppia, la debolezza relativa degli Stati Uniti in questo particolare momento suggerirebbe di non avviare alcuna trattativa: “una cosa – scrivono – è cercare l’aiuto [di Iran e Siria] mentre gli Stati Uniti stanno perdendo e la loro posizione al tavolo delle trattative è la più debole; un’altra è avviare invece la diplomazia in una fase di rafforzamento grazie al tentativo di migliorare le condizioni di sicurezza.”

Per quanto riguarda l’invio di nuove truppe è opportuno sottolineare che i pompieri servono quando l’incendio è in corso. Data la situazione attuale in Iraq, risulta difficile credere che un aumento delle truppe in loco possa permette davvero una svolta significativa. Inoltre, anche ammettendo una tale possibilià, come ha scritto sul Financial Times di ieri Zeb Bradford, ex general dell’esercito americano ed ex-capo del dipartimento di pianificazione strategica della Nato, un aumento delle truppe americane in Iraq “in un arco di tempo che possa fare qualche differenza” è semplicemente “not feasible“.

Per quanto riguarda invece le trattative con Tehran, è interessante notare come anche Kagan e Kristol siano arrivati a riconoscere come le politiche che hanno sostenuto e promosso nel corso degli ultimi tre anni, alla fine, abbiano solamente indebolito gli Stati Uniti.

Stupisce però che i due autori continuino a suggerire risposte inadeguate. Nel 2003, quando Saddam Hussein si nascondeva dai soldati americani dopo la fine del suo regime, l’Iran propose agli Stati Uniti una trattativa: pace in Medio Oriente, fine dell’ostilità verso Israele, stop del finanziamento di Hamas. La rapida caduta di Baghdad aveva fatto tremare gli ayatollah che temevano per loro una sorte simile a quella dell’ormai ex-rais – che qualche mese più tardi , in fatti, sarebbe stato catturato. Generalmente si parla di compellence.

In quel caso gli Stati Uniti decisero di continuare con la retorica:: “non si tratta con le dittature”; “il vero problema è il regime politico, non l’Iran”. “La democrazia è la nostra unica garanzia per una sicurezza regionale”. Parole che allora venivano salutate come lungimiranti, perchè non annebbiate dal cinismo della realpolitik. Ma che a distanza di tre anni suonano stonate.

Cosa è cambiato

Dopo la fine del regime iracheno, Iran e Siria furono messi esplicitamente nella waiting list (Richard Perle, allora presidente del Defense Policy Board Advisory Committee, nel giugno 2003 affermò solennemente: “ora tocca a Tehran e Damasco”). I due Paesi reagirono di conseguenza, in modo del tutto razionale: si adoperarono per rallentare – o, per essere più precisi, per impedire – la ricostruzione in Iraq, e quindi per sferrare un duro colpo agli Stati Uniti e così far svanire ogni possibile piano di regime change che li vedesse come obiettivi. A tre anni di distanza, i regimi iraniano e siriano sono più forti che mai (a proposito, si veda cosa ha scritto qualche mese fa The Economist), mentre la ricostruzione irachena è ancora avvolta da un alone di incertezza.
Non c’è nulla di più flessibile della strategia. Proprio per questo le politiche rigide (“non si tratta con le dittature”) oltre che ridicole sono anche fallimentari. Oggi, con rammarico, constatiamo come proprio quelle posizioni siano diventate addirittura outdated.

Come ammettono Kagan e Kristol, oggi gli Stati Uniti non si possono permettere di intavolare alcuna trattativa perchè non sono più in una posizione di forza. Iran e Siria, da bersagli, sono diventati mediatori indispensabili per la fine di una crisi che gli USA non sembrano in grado di gestire. Molti studiosi avevano sottolineato i rischi intrinseci di una avventura come quella irachena – politiche che inizialmente avevano affascinato anche chi scrive. Sbarazzarsi di questi critici fu però fin troppo facile: furono tacciati di snobismo intellettuale, di proporre tesi valide per i libri di testo, per l’accademia, ma non per il mondo reale. Dopo quanto accaduto sembra vero il contrario.

Tre anni fa gli Stati Uniti vantavano una forza impareggiabile nell’arena internazionale. L’Iran era uno stato isolato dal mondo. Era il momento per sedersi al tavolo e negoziare. La sensazione di invincibilità fu però troppo forte, e si preferì non mostrare alcuna esitazione dal progetto di democratizzare il medio oriente. Così, negli anni successivi, gli Stati Uniti avrebbero oltrepassato quello che gli strateghi militari chiamano il clausewitziano punto culminante di vittoria, il punto (temporale, spaziale o politico) oltre il quale la vittoria iniza a trasformarsi in una sconfitta.

Ciò non deve sorprendere. La concezione della guerra del tutto apolitica adottata – sia nei piani politici dell’Amministrazione USA che da Kagan e Kristol – non poteva che portare ad un epilogo di questo genere. La guerra, nei piani di Washington, aveva smesso di essere un mezzo per ottenere un settlement favorevole, una pace, per diventare invece una via quasi escatologica alla liberazione umana.

Dopo aver sostenuto queste politiche che, proprio come i vari Mearsheimer, Walt e Waltz avevano anticipato, hanno indebolito drammaticamente Washington, Kagan e Kristol chiedono un’ulteriore prova di forza, sostenendo che non si puo’ trattare in un momento di debolezza. Chissà per quale motivo, allora non abbiano incoraggiato il dialogo nel momento di maggiore forza – al tempo bisognava promuovere la democrazia (?!).
Mandare nuove truppe in Iraq significa non affrontare il problema – diversamente da quanto Kagan e Kristol sostegono. Significa adottare un palliativo. La soluzione alla crisi irachena e del medio oriente si trova a Teheran e a Damasco. E’ lì che bisogna andare, come suggerisce anche The Economist di questa settimana. Relegare alla storia il regime change per garantire all’Iraq la stabilità necessaria alla ricostruzione. Questo è il trade-off. Altrimenti, ci si può continuare a riempire di illusioni sulla democrazia in tutto il medio oriente, e finire però nel deserto. Non proprio una prospettiva alettante.


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