di Mario Seminerio – Domani Quotidiano
Le due maggiori banche centrali del pianeta, la Federal Reserve e la Bce, sono state costrette a prendere posizione di fronte ai “capricci” dei mercati, i famosi “tantrum“, che a intervalli regolari le costringono a rettificare la posizione. Non è stato e non è un bel vedere, anche se siamo ormai abituati a queste scene. Il problema è che ora questi episodi stanno mettendo in chiaro in modo inequivocabile che il re-banchiere centrale è nudo.
La Bce è stata costretta a un governing council straordinario in videoconferenza, dopo che la riunione di giovedì scorso aveva scatenato l’inferno dei mercati sugli spread dei paesi periferici e soprattutto su quello italiano. Tutto era iniziato perché il comunicato finale, contrariamente alle attese, non indicava le tecniche che sarebbero state utilizzate per evitare la “frammentazione”, cioè per evitare allargamenti “patologici” di alcuni spread.
Lo strumento antiframmentazione che non era nato
Subito, il mercato ha iniziato a mitragliare l’Italia e la Grecia. La Bce mercoledì si è tele-riunita e ha prodotto un assai stringato comunicato in cui annuncia al popolo festante (soprattutto quello italiano) di aver dato mandato ai propri servizi e comitati rilevanti di accelerare il completamento dello strumento anti-frammentazione.
Non prima di aver ribadito il proprio orientamento ad applicare flessibilità sui reinvestimenti dei titoli comprati durante il programma PEPP e che arriveranno a scadenza. Punto, questo, che era già presente nel comunicato di giovedì scorso. Ora si attende la riunione di luglio per avere dettagli, e capire se o meglio quali condizionalità verranno attivate per permettere a un paese (a caso) di fruire dell’agognato “scudo anti-spread”, come lo chiama la banalizzazione giornalistica.
La mia impressione, detta in modo brutale, è che in seno al Governing Council nessuno avesse ancora messo testa e mani sullo strumento anti-frammentazione, quando si è deciso di avviare lo svezzamento dagli acquisti di titoli. Forse qualcuno avrà detto “bisogna pensare a qualcosa in caso lo spread italiano tornasse a impennarsi”, e forse qualcuno avrà risposto “va bene, poi ci penseremo”.
Elucubrazioni
Dopo di che Christine Lagarde, che di central banking e politica monetaria afferra il giusto, cioè assai poco, si è presentata in conferenza stampa o ad eventi pubblici e ha diligentemente avanzato il “suggerimento”, pensando di essere a posto con coscienza e lavoro. Purtroppo, le cose sono sempre più complesse di quanto appaia ai nostri occhi, e la razionalità spesso si traduce solo in decisioni sequenziali e reattive, non sinottiche e pro-attive.
Ora sono iniziate le elucubrazioni. Quali saranno le condizioni, quanto alta l’asticella? E quanto verrà investito? E si potrà deviare dalle allocazioni tra paesi secondo la partecipazione al capitale della Bce (la cosiddetta capital key) per quanto tempo? Questo è il lavoro dei central bank watcher: elaborare ipotesi.
Forse in Italia c’è chi si è convinto che, dopo il mini-crollo di rendimenti e spread italiani, ora abbiamo davanti un’autostrada fatta di scostamenti di bilancio e altre amenità. La Bce è ufficialmente entrata nel business della “chiusura” degli spread. Pensate gli equilibrismi teologici: sin a questo livello di spread sono i “fondamentali”, oltre questo punto è “frammentazione”.
E al contempo sono (ri)partite le dotte analisi sull’esigenza di avere una “agenzia di debito europea”, cioè mettere in comune il debito, mentre i venditori di olio di serpente sono già pronti a ritirare fuori il loro banchetto fatto di monetizzazione e cancellazione del debito, anche durante una perturbazione inflazionistica. Di rincalzo, arriveranno pensosi economisti a dire che lo spread è uno svantaggio competitivo per il nostro meraviglioso paese.
Un whatever it takes differente
La Fed mercoledì si è esibita in una sorta di whatever it takes per stroncare un’inflazione vibrante, lato offerta e lato domanda. Settantacinque centesimi e altri 175 vaticinati da qui a fine anno, ha prescritto il dottore. Jay Powell si è detto fiducioso che la crescita americana reggerà la stretta e che si arriverà al famoso e presto famigerato softish landing, cioè un soft landing in cui forse l’aereo perde i carrelli e finisce fuori pista.
Riusciranno i nostri eroi a realizzare quella che è stata definita “l’immacolata disinflazione”, cioè a piegare la corsa dei prezzi senza causare una recessione col suo corollario di aumento di disoccupazione? Lo scopriremo ma temo di no. Per ora, ci sono alcune evidenze aneddotiche sparse. Ad esempio, i prestatori nel comparto auto stanno tagliando i debitori con peggiore punteggio di credito.
Anche gli spread di credito stanno subendo un violento allargamento, che non mancherà di trasmettersi all’economia reale, col solito ritardo. A questo proposito, molti stanno criticando la mossa della Fed perché la politica monetaria agisce con un ritardo di circa 12-18 mesi, e potrebbe finire a stringere troppo, quando l’economia sarà già in recessione. Personalmente, mi ha colpito il dissenso di Esther George, della Fed di Kansas City: solitamente un falco, mercoledì avrebbe preferito un aumento di mezzo punto. Forse vuol dire che sul territorio sta iniziando a vedere qualcosa di spiacevole?
Davvero difficile sfuggire all’impressione che le banche centrali siano prese a schiaffi dalla realtà prima che dai mercati, e che il potere della parola, una forma di sciamanesimo moderno, sia stato pesantemente degradato. Moderni imperatori e alchimisti della ricchezza, una tesi per ogni situazione. E ora, proprio come l’imperatore della fiaba di Andersen, si esibiscono col loro abito nuovo e completamente invisibile.
(pubblicato online il 16 giugno 2022 e su cartaceo il 17 giugno 2022)
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