A Bruxelles discutono del bilancio europeo post-Brexit. L’Italia lo sa?

Il Sud rischia di perdere miliardi di fondi a beneficio di Portogallo e Paesi dell’Est. La battaglia per le risorse è iniziata

di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano

Lo scorso 23 febbraio ha preso avvio il processo di negoziazione del bilancio pluriennale dell’Unione europea (MFF, Multiannual Financial Framework), per il settennato 2021-2027. Questo ciclo di bilancio dovrebbe essere caratterizzato dalla cessazione della contribuzione britannica, a seguito della Brexit, a meno di accordi che determinino pagamenti per accesso parziale al mercato unico. In caso di uscita definitiva, in sette anni verranno a mancare 93 miliardi di euro di contributi.

Il bilancio Ue è pari all’1% della somma del reddito nazionale lordo degli attuali 28 membri, e a solo il 2% del totale della loro spesa pubblica; deve essere in pareggio ed è soprattutto un bilancio di investimento. I due maggiori capitoli di spesa, politica agricola comune e coesione economica, sociale e territoriale, rappresentano ben il 70% del bilancio.

I negoziati sono resi problematici dalla crescente tensione tra paesi datori e prenditori netti. Tra i secondi, nel triennio 2014-16, il primo beneficiario era la Polonia, con 10 miliardi di euro medi annui ricevuti, mentre il primo pagatore netto era la Germania, con 13,6 miliardi. L’Italia è al quarto posto con 3,5 miliardi annui pagati, meno della metà della Francia.

La Commissione europea ha suggerito alcune aree di spesa strategica, tra cui sicurezza e immigrazione, Difesa, cambiamento climatico, ricerca e innovazione. Per quadrare il cerchio, tra buco di contribuzione post Brexit e aggiornamento dei capitoli di spesa, la Commissione ha proposto alcuni scenari di taglio ai fondi di coesione, destinandoli solo ad aree in assoluto meno sviluppate e paesi a minor reddito; nella variante estrema si produrrebbero 124 miliardi di risparmi in sette anni ed i fondi andrebbero ad esclusivo beneficio dei paesi dell’Est e del Portogallo, e non più anche alle regioni italiane meno sviluppate.

Sulla politica agricola comune si discute una riduzione dei pagamenti diretti, l’80% dei quali va al 20% degli agricoltori, e si ipotizza di legarli ai risultati, ad esempio sostenibilità in regioni montuose o meno profittevoli, oltre a privilegiare le aziende agricole di minori dimensioni. Il reperimento di maggiori risorse proprie per il bilancio comunitario potrebbe avvenire acquisendo più quote di gettito Iva o dei certificati di emissione di gas serra, con una frazione dell’imposta societaria calcolata su una base imponibile comune o dal reddito di signoraggio della Bce.

Interessi nazionali molto forti ostacoleranno la modifica delle erogazioni, mettendo a rischio l’evoluzione strategica del bilancio. Come si nota, si tratta di temi complessi, con ricadute nazionali molto ampie. Per l’Italia, persa in un dibattito pubblico interno ormai psichedelico, con i suoi proiettili d’argento di risanamento e rinascita, e che tende a distrarsi quando in Europa si decide il proprio futuro, salvo poi gridare al complotto esterno, cresce il rischio di ulteriori danni e marginalizzazione. Rigorosamente autoinflitti.


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