di Mauro Gilli
Secondo il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, chi evade le tasse non meriterebbe di essere italiano. Ognuno è libero di avere le proprie opinioni, ma quando queste opinioni sono basate su una concezione astorica dello stato e travisano profondamente l’evoluzione del rapporto tra stato e cittadini, è opportuno mettere le cose in chiaro. In particolare se a cadere in questi errori è il Presidente della Repubblica.
Il processo di formazione degli Stati nazionali in Europa è iniziato nel tardo Medio Evo e si è concluso formalmente con l’unificazione Italiana e Tedesca nel decennio 1861-1871. Lo Stato nazionale si è sviluppato in modo disordinato e non uniforme, ma vi è un comune denominatore: la necessità di maggiori risorse (principalmente per far fronte alle spese belliche) spinse molti sovrani europei a creare una burocrazia centralizzata in modo da poter aumentare le imposizioni fiscali sulle popolazioni soggiogate. Ciò aumentò il potere e il controllo del Sovrano, permettendo così un ulteriore aumento delle imposizioni sulle popolazioni locali.
Progressivamente, però, di fronte alle crescenti esigenze dello Stato centrale, le popolazioni hanno chiesto una maggiore partecipazione alla decisioni di spesa: è così che è nata la democrazia, come ricorda il famoso slogan americano “no taxation without representation“. Non è un caso che, quando le istituzioni statali sono sorte su territori dotati di enormi risorse naturali, lo sviluppo democratico non si è avuto: l’esempio dei Paesi mediorientali produttori di petrolio è un esempio lampante.
Qui arriviamo al punto centrale: l’evasione fiscale così come la diserzione dalla leva sono una manifestazione di insofferenza verso lo Stato (si veda, ad esempio, questo lavoro di James Scott). Più fattori guidano questo tipo di comportamento. Uno di questi, come ha notato Margareth Levi, è l’assenza di legittimità dello Stato che impone queste richieste ai cittadini. Rousseau lo aveva capito tanto tempo fa: “anche il più forte non è mai abbastanza forte da poter sempre imporre le sue decisioni, a meno che non trasformi la forza in diritto e l’obbedienza in dovere.”
E’ facile intuire quale sia la conclusione di quanto scritto. Se l’Italia ha un livello di evasione fiscale molto alto, la colpa non va trovata solo in chi evade, che consciamente o no manifesta di non volere contribuire alla cosa pubblica. La colpa va trovata anche nel fallimento delle classi politiche, che invece di accrescere il senso legittimità dello Stato, hanno per anni fatto l’esatto contrario, dando a molti cittadini l’impressione che le risorse pubbliche vengano usate per l’arricchimento personale. I richiami al senso civico, al nazionalismo o a doveri superiori possono servire in momenti di crisi esogene. Purtroppo, però, la crisi dell’Italia non è dovuta ad oscure forze esterne ma, semplicemente, all’assenza del senso civico della sua classe dirigente.
Pertanto, quando dice che chi evade non merita di essere italiano, il presidente Napolitano confonde la relazione tra Stato e cittadini. Non è lo Stato che concede agli individui l’onore di essere suoi cittadini (una visione da Stato assoluto seicentesco), ma sono i cittadini che concedono allo Stato il diritto di tassarli in cambio della fornitura di alcuni beni pubblici.
Ne consegue – semplicemente – che chi evade probabilmente non si riconosce nello Stato Italiano, non si sente rappresentato, si sente defraudato, oppure non trova legittimo che gli venga chiesta una cospicua parte dei propri guadagni se questi devono poi andare a finanziare le spese di Renzo Bossi piuttosto che di Luigi Lusi.
Molti economisti dicono da tempo che per risolvere i problemi economici dell’Italia si dovrebbe tagliare la spesa, e non aumentare le tasse. Lì si trova anche, in parte, la soluzione ad alcuni problemi sociali e politici del Paese. Quando la spesa pubblica smetterà di essere percepita come un semplice giro conto dalle tasche dei contribuenti a quelle dei politici, dei loro familiari, amici, e affini, la legittimità delle imposte sarà probabilmente più alta e il livello di evasione potrebbe diminuire. L’aveva capito, qualche tempo fa, anche una persona non sospetta di sofisticate conoscenze politologiche o simpatie libertarie: l’anti-giottino Luca Casarini.
In termini più semplici, la tassazione serve per finanziare quei beni pubblici di cui una collettività ha bisogno ma che i suoi membri, individualmente, non potrebbero produrre. Se la tassazione, però, anziché servire questo scopo finisce per finanziare l’accrescimento del reddito di taluni (ovvero produce beni privati, riservati a pochi, anzichè beni pubblici risevarti a tutti),* è da capire se siano effettivamente gli evasori che non meritano di essere italiani o se non siano gli esattori che non meritano sia il loro ruolo che questi cittadini.
* qualche esempio di spesa pubblica che non produce beni pubblici: gli stipendi più alti, rispetto a quelli di mercato, dei dipendenti pubblici, la protezione dei dipendenti di aziende quali Alitalia, Trenitalia, Poste Italiane, i costi della politica, i vari contratti dell’amministrazione pubblica allocati non sulla base di criteri di mercato ma per ragioni politiche, etc.
16 risposte a “Evasione fiscale e il “merito” di essere italiani – alcune riflessioni”
“Non è un caso che, quando le istituzioni statali sono sorte su territori dotati di enormi risorse naturali, lo sviluppo democratico non si è avuto: l’esempio dei Paesi mediorientali produttori di petrolio è un esempio lampante”
Non ho capito questo passaggio. Puo gentilmente articolarlo meglio? grazie!
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La democrazia è un compromesso che le elite al potere sono disposte a fare quando la popolazione non è disposta a ulteriori vessazioni fiscali. Avendo a disposizione delle risorse naturali, i governanti di certi paesi non devono fare questo tipo di compromesso con la popolazione locale per aumentare gli introiti dello stato. infatti, se guarda, i paesi che hanno risorse naturali hanno generalmente un livello di tassazione relativamente basso.
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non saprei, la tassazione era alta nella Grecia classica, all’epoca della Repubblica Romana, nell’Inghilterra post-Cromwell, o nei neonati Stati Uniti?
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Alto è un concetto relativo. Inoltre, l’imposta sui redditi è relativamente recente, non altro perché – come suggerito dall’articolo – solo dopo la creazione di una burocrazia molto vasta è diventato possibile tassare i guadagni. Fino al XX secolo, le tasse colpivano i commerci.
Ciò detto, il punto centrale non è se le tasse siano alte oppure no, ma se i cittadini abbiano dato il loro consenso. La rivoluzione inglese si sviluppò proprio intorno a questo aspetto. Il risultato fu semplice ma importante: era necessario il consenso parlamentare per l’imposizione di nuove tasse. La protesta “no taxation without representation” negli Stati Unit si basava sulla stessa logica.
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E’ una questione che mi interessa molto. Sarebbe possibile avere qualche indicazione bibliografica
che confortino le sue argomentazioni (cioè sui rapporti tra tassazione/materie prime ed evoluzione dei sistemi democratici) ?
La ringrazio vivamente!
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Ci sono più filoni di discipline diverse che toccano questo tema (economics, comparative politics, civil wars, comparative political economy, economic development, democratization, etc.). Quindi, prenda questa lista come assolutamente non esaustiva. Spero possa essere un utile punto di partenza (in ogni articolo potrà poi a sua volta trovare altre reference bibliografiche):
Acemoglu, Daron and James A. Robinson. 2000. ‘Why did the West extend the franchise?
Democracy, inequality and growth in historical perspective.’ Quarterly Journal of
Economics 115 (4): 1167–1199.
Acemoglu, Daron and James A. Robinson. 2001. ‘A theory of political transitions.’ American
Economic Review 91 (4): 938–963.
Acemoglu, Daron and James A. Robinson. 2006. Economic Origins of Dictatorship and
Democracy. New York: Cambridge University Press.
Collier and Hoeffler http://economics.ouls.ox.ac.uk/14066/1/gprg-wps-016.pdf
Easterly, William and Richard Levine. 2003. “Tropics, germs, and crops: the role of endowments in economic development,”
Journal of Monetary Economics, 50(1): 3-39.
Humphreys, M.. 2005. ‘Natural resources, conflict, and conflict resolution – Uncovering the
mechanisms.’ Journal of Conflict Resolution 49 (4): 508-537.
Jensen, N. and L. Wantchekon. 2004. ‘Resource wealth and political regimes in Africa.’
Comparative Political Studies 37, 816-841.
Ross, M.L. 2004. ‘How do natural resources influence civil war? Evidence from thirteen cases.’
International Organization 58 (1): 35-67.
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non saprei, probabilmente la scarsità di risorse e la necessità del consenso per il prelievo fiscale è influente, però non posso non pensare a paesi come Canada, Norvegia o Australia sono ricchi di risorse naturali, eppure sono democratici. io credo che la questione democratica sia innanzitutto culturale, e che la cultura sia solo in parte deterministica
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La Norvegia così come il Canada e l’Australia hanno scoperto le loro risorse naturali molto dopo essere diventate democrazie.
Il fatto che le risorse naturali contino non esclude che altri fattori giochino un ruolo, anche importante. La questione culturale è purtroppo molto difficile da provare, per via di processi endogeni.
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va bene, ma anche i paesi mediorientali erano dispotici già molto prima di godere dell’esportazione di petrolio. la democrazia nasce in Occidente e il dispotismo in Oriente in epoche molto antiche. comunque non ho abbastanza elementi per sviluppare una teoria, si dovrebbero analizzare le società di varie epoche sviluppatesi nel mondo in condizioni differenti di estensione del territorio, popolazione economia eccetera.
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MI sembra che lei stia rigirando l’aspetto temporale. Lo sviluppo degli Stati ha visto come primo stadio la nascita degli Stati assoluti.
Ad un certo punto nella loro storia, pressoché tutti gli stati sono stati assoluti.
La democrazia è venuta dopo. E’ venuta dove un gruppo sociale – i commercianti – si è arricchita rendendo per il sovrano necessario “comprare” il consenso di questo gruppo.
La rivoluzione Inglese (entrambi, quella del 1649 e quella del 1689) è ruotata intorno ai principi di tassazione. Il regime politico precedente a queste due rivoluzioni non era nè democratico nè liberale. Fu la necessità di ottenere il consenso di questo nuovo gruppo che permise una maggiore apertura politica.
Questo è il punto: nei momenti di transizione, la disponibilità di risorse diventa un punto chiave.
(con risorse naturali) –> limitata necessità di concedere apertura politica
Regime autoritario –> rivolta popolare maggiore necessità di concedere apertura politica.
Se il popolo insorge, e il governo ha bisogno di maggiore consenso per garantire gli introiti fiscali necessari, con maggiore probabilità farà delle cocnessioni politiche.
Se il popolo insorge, ma il governo può contare su altre fonti per gli introiti (le risorse naturali), le probabilità di una transizione democratica o di un’apertura politica sono inferiori.
Questo ovviamente non spiega ogni transizione democratica e non è l’unico fattore importante. Ma non è irrilevante, piuttosto il contrario.
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va bene, allora stiamo parlando della transizione da assolutismo a democrazia nello stato moderno, ho frainteso, credevo si facesse un discorso più generale. allora ci siamo, anche se con importanti eccezioni come i paesi dell’America Latina, in primis Brasile e Cile, democratici pur con ampie risorse naturali, e la Cina, paese manifatturiero importatore di materie prime (anche se in verità l’esempio della Cina potrebbe adattarsi alla tesi della tassazione in quanto sembra esserci sempre maggior pressione del popolo sul governo).
insomma, questa tesi regge, ma a osservare la mappa del Democracy Index più che una correlazione tra risorse naturali (e quindi livello della tassazione) e democrazia, vedo una correlazione tra quest’ultima e l’Islam, sempre con il grande punto di domanda sulla Cina, a meno che non trattiamo il socialismo a parte.
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Complimenti per l’intervento, apprezzo che qualcuno cerchi di spiegare i concetti espressi, che condivido, al presidente della Repubblica.
Se si accetta il principio democratico gl iStati sono solo strumenti con cui i cittadini si organizzano per il vantaggio comune. Lo Stato poi non puo’ “concerere” proprio nulla che non derivi, in fin dei conti, da risorse provenienti dai suoi cittadini-contribuenti.
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Grazie mille per i preziosi riferimenti.
Un’ultima domanda (ignori pure se sono off-topic, ma l’argomento mi affascina):
la nascita della democrazia ateniese e romana (nell’antichita), e inglese e americana (in eta moderna)
in che modo confermerebbero le sue spiegazioni sul rapporto tassazione/materie prime e democrazia che lei sostiene?
grazie ancora
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Sulla democrazia ateniese e romana non sono sufficientemente informato per rispondere. Relativamente a quella inglese, la rivoluzione scoppiò dopo che Carlo I (se non ricordo male) introdusse nuove tasse. L’esito della rivoluzione fu quello di stabilire la necessità del sostegno parlamentare a nuove imposizioni fiscali.
C’è un’ampia letteratura che collega proprio il vincolo parlamentare alla maggiore credibilità (e quindi anche minore instabilità politica) dell’Inghilterra (se guarda alcuni lavori di Stasavage, quelli di North e Weingast, e quello di Schulz e Weingast, per esempio, discutono proprio quest’ultimo aspetto.
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Rogowski in parte discute questo tema:
http://www.amazon.com/Commerce-Coalitions-Domestic-Political-Alignments/dp/0691023301
Ci sono certamente lavori più precisi a proposito, ma neppure io ne sono molto.
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[…] fiscale e il “merito” di essere italiani, sono tendenzialmente d’accordo con Mauro Gilli che riflette su un opinione che Giorgio Napolitano ha espresso a […]
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