di Mario Seminerio – Linkiesta
Il valore netto degli attivi bancari degli istituti europei è arrivato ai minimi dal marzo del 2009. E se le banche dovessero valutare a prezzi di mercato i titoli di debito sovrano che hanno in portafoglio, “nessuna di esse riuscirebbe a sopravvivere”, come ha detto il capo di Deutsche Bank Joseph Ackermann. Che fare? Francia e Germania metteranno mano al portafoglio, visto che possono. E noi?
La violenta turbolenza in atto sui mercati finanziari sta facendo pagare un pesante dazio alle banche europee, che oggi mostrano multipli depressi quasi quanto ai tempi del collasso di Lehman Brothers. Il timore di un effetto-domino indotto dal contagio di un default disordinato della Grecia ha portato il rapporto price-to-book, cioè tra prezzo e valore contabile netto degli attivi bancari, dell’indice europeo Bloomberg delle banche, che rappresenta 46 istituti di credito europei, al livello di 0,56, il più basso dal minimo toccato a marzo 2009, quando i mercati azionari fecero segnare minimi pluriennali. Questo significa che gli investitori ritengono che gli attivi netti valgano meno delle passività della banca, e chiedono quindi un robusto sconto sul rischio percepito, che ad oggi è rappresentato soprattutto da un evento di default sovrano.
Nel corso del weekend il G7, riunitosi a Marsiglia, ha ribadito l’impegno a sostenere gli istituti di credito, mentre crescono i timori che l’Europa stia per essere colpita da una crisi bancaria. Sta ormai facendosi strada, pur tra reticenze ed ipocrisie, l’idea che al sistema bancario europeo serva una massiccia ricapitalizzazione, per reggere sia un eventuale default sovrano sia i più generali effetti di indebolimento della congiuntura, che corrode la qualità degli attivi. Le banche francesi sono particolarmente colpite, per la loro struttura degli attivi, che vedono un ricorso maggiore della media al finanziamento interbancario rispetto alla base dei depositi, e per la presenza di attivi in dollari che sono finanziati sul mercato statunitense ma che stanno trovando crescente difficoltà di rinnovo. Per questo le vendite sono particolarmente insistenti malgrado le rassicurazioni di Société Générale, la più colpita dalla turbolenza, che ha annunciato di procedere ad un piano di dismissioni entro il 2013, mentre ha deciso di liberarsi di attivi liquidi in dollari proprio per avere minori problemi di finanziamento in dollari.
Nel frattempo, i costi di finanziamento per le banche lievitano: l’indice Markit iTraxx degli emittenti finanziari è arrivato ieri, per il debito senior, a 312 punti-base, e a 560 per il debito subordinato. Anche il cross currency basis swap, che indica il costo per scambiare euro (acquisiti magari a buon mercato dalla Bce) in dollari, è su valori massimi dal 2009, sulla scadenza trimestrale.
Il corrente livello dei prezzi delle banche implica, secondo alcuni analisti, una perdita completa del valore degli investimenti in debito sovrano di Grecia, Portogallo ed Irlanda. Secondo un’analisi di Barclays, nel caso di Société Générale il prezzo sconterebbe addirittura l’azzeramento del valore dei titoli di stato italiani e tedeschi detenuti dalla banca francese.
C’è sicuramente del panico, in queste reazioni del mercato, ma c’è soprattutto una grave perdita di visibilità prospettica. Di certo, dichiarazioni come quelle del capo di Deutsche Bank, Josef Ackermann, che ha candidamente ammesso che, se le banche dovessero valutare a prezzi di mercato i titoli di debito sovrano che hanno in portafoglio, “nessuna di esse riuscirebbe a sopravvivere”. Essendo questo il punto dirimente di ben due edizioni di stress test bancari europei (la mancata considerazione di un default sovrano), è piuttosto evidente che i timori del mercato si alimentano di questa negazione della realtà. Anche la presa di posizione di Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, che settimane addietro ha tentato di quantificare in 200 miliardi di euro il fabbisogno di ricapitalizzazione delle banche europee, salvo poi fare una parziale retromarcia durante il G7 del fine settimana, getta ulteriore benzina sul fuoco dell’incertezza, anche se può rivelarsi un forte richiamo alla realtà. Peraltro, una recente stima di Nomura ipotizza un buco di capitale di ben 350 miliardi di euro in caso le banche europee dovessero allineare a valori di mercato le loro posizioni di titoli di stato dei PIIGS.
La domanda è: chi dispone di questi fondi per ricapitalizzare? E soprattutto, gli stati nazionali possono permettersi di “mettere sul mercato” i propri sistemi creditizi, magari accettando investitori sovrani di autocrazie petrolifere, o anche banche di altri paesi dell’Eurozona? Qui occorre pensare alla capacità dei sistemi-paese di resistere ad un simile tsunami. E’ altamente probabile, per non dire certo, che la Germania sia in grado di puntellare le proprie banche con iniezioni di capitale pubblico. Lo stesso può dirsi, verosimilmente, per la Francia. E per l’Italia? Le fondazioni bancarie potrebbero avere non poche difficoltà, in caso venissero chiamate in breve termine ad ulteriori e robuste ricapitalizzazioni delle banche che controllano. Potrebbe, quindi, porsi l’esigenza di un intervento pubblico, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti ed il fondo “strategico” che è stato messo in cantiere in fretta e furia ai tempi della bizzarra “sistemicità” di Parmalat. Fantafinanza e fantapolitica? Forse. Di certo, questa crisi è destinata a mutare drammaticamente gli equilibri di potere, tra nazioni dell’Eurozona ed all’interno delle medesime. Per un paese come il nostro, che da sempre fa dell’incapacità a programmare uno disfunzionale stile di vita, il test più difficile.
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