di Mario Seminerio – Linkiesta
Non bastasse una situazione internazionale infuocata, il Presidente degli Stati Uniti si trova a fronteggiare una situazione economica interna davvero complicata. A dicembre ha ottenuto il via libera dei Repubblicani ad un allungamento dei sussidi per la disoccupazione, in cambio di esenzioni fiscali fatte da Bush e ora confermate. Il risultato è un deficit aggiuntivo di 900 miliardi, mentre continuano ad esserci 5 disoccupati ogni nuova posizione lavorativa offerta.
Lo scorso mese di dicembre, Barack Obama ha negoziato con i Repubblicani un pacchetto di misure fiscali che rappresentano una manovra aggiuntiva di stimolo, basata essenzialmente su uno scambio: il via libera dei Repubblicani al prolungamento per altri 13 mesi dei sussidi straordinari di disoccupazione (che possono raggiungere le 99 settimane), contro l’estensione per un altro biennio dei tagli d’imposta introdotti da George W.Bush, che Obama intendeva revocare per i contribuenti con reddito superiore a 250.000 dollari annui. Il pacchetto prevedeva altre misure espansive, quasi esclusivamente di natura fiscale, quali il taglio per tutto il 2011 di due punti percentuali dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti (payroll tax). Nella manovra c’erano caramelle fiscali un po’ per tutti: dalla completa deducibilità dei beni strumentali d’azienda entro il primo biennio d’imposta al taglio dell’imposta di successione, per la quale è stata fissata un’aliquota del 35 per cento, con franchigia per 5 milioni di dollari dell’asse ereditario.
Si stima che l’intera manovra determinerà un aggravio di deficit di 900 miliardi di dollari per un biennio, oltre ad avere un potenziale espansivo piuttosto problematico, come ha osservato anche il Fondo Monetario Internazionale. Gli osservatori politici tendono a leggere questa manovra come l’inizio della strategia “centrista” di Obama, in vista della corsa per le presidenziali del prossimo anno.
Di certo, il presidente ha ceduto agli argomenti Repubblicani di politica economica, che da ormai molti anni teorizzano che il taglio delle tasse, anche in deficit, è cosa buona e giusta perché stimola l’attività economica e tende quindi a ripagarsi. Questa granitica certezza non è stata scalfita neppure dalla più completa assenza di evidenze empiriche, oltre che dallo scarso impatto sulla crescita esercitato dai precedenti tagli d’imposta di George W.Bush, nel 2001 e 2003. E’ la riproposizione della teoria della curva di Laffer, che già George Bush senior, da avversario di Ronald Reagan, ebbe a definire “voodoo economics”. Oggi la storia si ripete, ma il contesto economico è molto diverso. Gli Stati Uniti sono immersi in un ambiente fiscale e monetario largamente “artificiale”, perché frutto di manovre non convenzionali della Fed e di forti stimoli fiscali indotti soprattutto dal crollo di entrate tributarie successivo alla crisi.
Il duello tra Obama ed i Repubblicani si è anche giocato su una anomalia: l’andamento molto debole del mercato del lavoro americano, pur in presenza di risultati economici delle imprese quotate mediamente positivi. Il Grand Old Party per mesi ha sostenuto che le imprese non assumevano né investivano, restando con ampie disponibilità liquide, perché bloccate nei propri piani di espansione dall’incertezza per le misure fiscali di Obama, anche in relazione allo scadere dei tagli d’imposta per i contribuenti più facoltosi.
L’accordo di dicembre pare non aver mutato la situazione. Dati recenti mostrano che, mentre il numero di licenziamenti è prossimo ai minimi dal 2000, il tasso di assunzioni resta molto debole, in assoluto e relativamente a questa fase del ciclo economico. A gennaio, vi erano cinque disoccupati per ogni nuova posizione lavorativa offerta; il rapporto ha toccato il valore di sette a uno al picco della crisi, ma è ancora lungi dai livelli storicamente normali, pari a circa due disoccupati per ogni impiego disponibile. La situazione è migliorata in misura marginale in febbraio, ultimo mese di dati disponibili.
Questa crisi economica non è quella dei vostri padri e dei vostri nonni, osservano gli economisti. Il numero di disoccupati di lungo termine è su livelli europei o più propriamente italiani. Politica ed economia si dividono per linee partisan nella lettura del fenomeno. Da un lato, liberal keynesiani come Paul Krugman argomentano sulla natura ciclica della disoccupazione, da deficit di domanda aggregata domestica, che richiede quindi ulteriori misure espansive di spesa pubblica; dall’altro i liberisti sostengono la tesi della disoccupazione strutturale, contro la quale ulteriori misure di stimolo servirebbero a poco perché “non si può trasformare i muratori in infermieri”. Nel frattempo, i dati di contabilità nazionale mostrano che nel 2010 vi è stata la maggiore crescita degli utili aziendali degli ultimi sessant’anni. La vera ripresa a forma di V è nei profitti, non ancora nell’occupazione. Che diranno i Repubblicani, ora che la loro tesi dell’”incertezza” è stata sconfessata dagli eventi?
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