Con o senza Fiat, per il futuro della Fabbrica Italia serve una vera riforma della contrattazione

di Mario Seminerio – Libertiamo

Lo scorso 22 aprile, cioè il giorno dopo aver presentato il progetto “Fabbrica Italia”, l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, si esprimeva in questi termini su Mirafiori:

«Il potenziamento di Mirafiori sarà incredibile, lì bisogna fare più di 200 mila vetture l’anno»

Il giorno successivo, Marchionne ribadiva il concetto:

«Lo stabilimento di Mirafiori verrà potenziato, farà molte più vetture di quante prodotte storicamente. Questo ovviamente porterà a una crescita dei dipendenti il cui numero sarà superiore a quello che abbiamo adesso»

L’ad di Fiat aveva aggiunto che precondizione necessaria allo sviluppo del piano era l’affermazione di standard di produttività elevata in tutti gli impianti italiani del gruppo, non solo a Pomigliano, dove ci si accingeva a votare il referendum sulla ristrutturazione. E proprio l’esito del referendum campano, con i voti contrari all’accordo che hanno ampiamente superato la consistenza della rappresentanza sindacale della Fiom-Cgil, ha indotto Marchionne ad annunciare lo scorso 22 luglio la delocalizzazione e la messa in produzione del nuovo monovolume L0 a Kragujevac, in Serbia:

«Se non ci fosse stato il problema Pomigliano, la Lo l’avremmo prodotta in Italia. Ci fosse stata la serietà da parte del sindacato, il riconoscimento dell’importanza del progetto, del lavoro che stiamo facendo e degli obiettivi da raggiungere con la certezza che abbiamo in Serbia, la Lo l’avremmo prodotta a Mirafiori»

ha dichiarato Marchionne. Il problema principale di Fiat resta quello di non subire discontinuità nel flusso produttivo, causate da una conflittualità sindacale consentita dalla struttura della contrattazione collettiva. Da qui l’esigenza di creare una Newco, da cui far riassumere tutti i dipendenti necessari al gruppo, ed abbandonare il contratto collettivo dei metalmeccanici. Concetto ribadito anche nell’incontro di mercoledì 28 luglio con il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi e nella persistente latitanza del ministro dello Sviluppo Economico, direttamente o per interposto interim.

Alla base di tutta la vicenda esiste un problema che non poteva essere ignorato da un manager esperto come Marchionne: la natura e le caratteristiche della contrattazione collettiva italiana. Un problema che parte da molto lontano, precisamente dall’articolo 39 della Costituzione, e dalla sua perpetua e storica disapplicazione. In particolare, il quarto comma, che recita:

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce

Nel corso dei decenni, la prassi è stata invece quella di “costituzionalizzare” il contratto nazionale e forme patologiche e ricattatorie di conflittualità sindacale, laciando a livelli pressoché embrionali la contrattazione decentrata. Come ha sintetizzato molto efficacemente Franco Debenedetti su ilSole24Ore,

«Oggi, e lo si ripete ancora una volta, un dipendente di Pomigliano, anche iscritto a uno dei sindacati che ha firmato l’accordo, potrà aderire allo sciopero degli straordinari già dichiarato dai Cobas da qui al 2014, senza nessuna delle sanzioni previste dall’accordo. A legislazione vigente, un accordo anche se firmato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei dipendenti, oppure ratificato dalla maggioranza dei partecipanti a un referendum aziendale è zoppo dal punto di vista dell’efficacia nei confronti di tutti i dipendenti»

Possibile che Marchionne sia andato allo showdown del referendum ignorando questa palmare realtà del nosto panorama giuslavoristico, e cioè che neppure in caso di plebiscito a Pomigliano l’accordo dei 18 turni (e di molto altro) sarebbe stato blindato? Difficile non fare dietrologia, perché la chiave di lettura alternativa sarebbe quella di un Marchionne vittima della propria sprovvedutezza. In alternativa, potremmo offrire l’immagine di un Marchionne pokerista, consapevole che gli incentivi all’insediamento su cui potrà contare nell’impianto serbo sono un formidabile argomento, da ammantare della pubblicistica della grande impresa libera e globale che sceglie orgogliosamente le proprie location rispetto al ricatto della politica. Immagine forse calzante, certamente piuttosto logora, oltre che riduttiva.

Fiat continua ad avere un problema piuttosto serio, tale da metterne a costante rischio la sopravvivenza come player globale: il non riuscire a sfondare in segmenti di mercato ad elevati margini, circostanza che finisce col relegarla sui segmenti delle city car che tendono a produrre perdite, a meno di lavorare su volumi elevatissimi. I numeri dicono anche altro: Fiat è il gruppo europeo con il peggior andamento di vendite nel primo semestre di quest’anno. Il marchio Fiat, sempre in Europa, è dietro Volkswagen, Peugeot, Renault, Ford, Opel, e, a giugno, anche Citroën. Questa è una tendenza catastrofica, con o senza il potere d’interdizione sindacale negli impianti italiani. Per questo, pensare ad una Fiat delle Americhe (non solo Chrysler, ignorando il modo in cui è stata acquisita, ma anche il Brasile), ha molto senso per l’azionista di controllo, anche e soprattutto dopo lo spinoff delle attività automotive, il Grande Evento a cui Gianni Agnelli ha resistito per decenni, forse per motivi affettivi, forse perché i tempi non erano propizi.

Marchionne è, quindi, soprattutto un manager globale che deve gestire un serio e persistente problema di posizionamento strategico della sua azienda. Dal versante italiano, entra o dovrebbe entrare in gioco la politica, ma in modo assai diverso da quanto fatto nel passato. L’attuale governo ha finora introdotto solo un esile esperimento di detassazione dei premi di risultato (peraltro con forti limitazioni legate alle difficoltà di finanziamento della misura) ma non ha messo mano, di concerto con le parti sociali, ad iniziative di riforma della contrattazione collettiva che avrebbero dovuto spostarne significativamente l’asse normativo dal nazionale all’aziendale/territoriale, oltre a chiudere la falla della rappresentanza e conseguentemente della conflittualità sindacale, come del resto evidenziato da molti anni da Pietro Ichino, e non solo da lui.

Finché non si metterà mano a queste leve di competitività, il paese resterà a rischio-abbandono da parte delle maggiori imprese manifatturiere che qui sono rimaste ad operare, e non servirà a nulla varare iniziative di attrazione dell’investimento diretto estero come quella voluta da Giulio Tremonti, che consente la “portabilità” del sistema fiscale del paese d’origine alle imprese che scelgono di rilocalizzarsi in Italia. Servirebbe in realtà una iniziativa di portabilità del regime di relazioni sindacali: di sicuro ci sarebbe molto da imparare da tedeschi e britannici, senza guardare al Vietnam ed alle aree più depresse dell’Est Europa.

Il problema resta, come sempre, l’adeguatezza della politica alle sfide globali della modernizzazione. Non sappiamo (né ci interessa, entro dati limiti) se Marchionne sta giocando una partita a poker, più o meno disperata, cercando alibi per una delocalizzazione piena e definitiva del gruppo Fiat. Quello che è certo è che l’esecutivo ha l’obbligo di rispondere alla richiesta di creare condizioni idonee allo sviluppo, smettendo di rivendicare l’inesistente merito di aver agito al margine di uno status quo che semplicemente non è più sostenibile.


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