Il “grand bargain” di Pechino e il nuovo corso americano

di Daniele G. Sfregola

L'accordo di Pechino

L’accordo preliminare siglato il 12 febbraio a Pechino dai capi-delegazione degli Stati coinvolti nel negoziato esapartito sul nucleare nordcoreano è passato inaspettatamente sotto traccia nel dibattito nazionale. Eppure l’intesa raggiunta sembra costituire un duplice turning point, potenzialmente foriero di particolari conseguenze politiche nell’immediato futuro.

Innanzitutto, questo vale per il pluridecennale contenzioso inerente la Corea del Nord e il suo programma nucleare. Ulteriormente, esso rappresenta l’esito di un processo di profondo ripensamento della maggiore potenza mondiale su due temi-chiave della propria agenda di politica estera, la proliferazione nucleare e la diffusione della democrazia nel mondo.

Impotente dinanzi al test nucleare nordcoreano dell’ottobre scorso, l’amministrazione Bush ha dovuto prendere atto del fallimento della politica neoconservatrice, incentrata ideologicamente sull’indissolubilità del tema democratico e di quello nucleare come soluzione unica all’allineamento dell’outsider di Pyongyang al sistema regionale asiatico-nordorientale. Come già l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger aveva ammonito in un intervento sul Washington Post del maggio dello scorso anno, sovrapporre la questione spinosa della proliferazione nucleare e quella della pregiudiziale democratica, molto meno urgente per Paesi-chiave dell’equilibrio regionale come la Federazione Russa e la Cina, ha prodotto col tempo un unico risultato: l’azione più confusa degli Stati Uniti e la difesa più efficace della Corea del Nord, grazie alla doppia sponda cinese e russa.

In realtà, sia a Mosca che a Pechino l’interesse è condiviso, vertendo sull’esigenza di mantenere in uno stato di denuclearizzazione l’equilibrio peninsulare coreano. Esattamente quanto chiesto da Washington, da Tokyo e da Seul. E’ bastato l’abbandono del metodo neoconservatore, nel momento più critico della storia della crisi nordcoreana, per riprendere costruttivamente il dialogo con Pyongyang. Già in dicembre, infatti, Washington ha optato per un primo contatto bilaterale, a Berlino, con la delegazione nordcoreana. Ciò è stato funzionale al rilancio del negoziato a sei, puntualmente riattivato a Pechino l’8 febbraio.

La nuova strategia diplomatica americana appare più raffinata, la qual cosa non è ovviamente garanzia di successo, ma semplicemente di maggiore considerazione dell’interesse nazionale americano e della sua sintesi con quello condiviso in Estremo Oriente dalle potenze regionali. Alla logica delle minacce di un rivolgimento istituzionale in realtà impossibile a prodursi in costanza del programma nucleare nordcoreano, si è preferita quella del duplice passaggio negoziale. Si è pertanto prodotto un accordo preliminare in cui, a fronte di notevoli incentivi nella forma di forniture energetiche o economiche di pari valore, il regime di Kim Jong-Il si è impegnato a sospendere la produzione di energia nucleare nel suo unico reattore, sito a Yongbyon, sotto il controllo degli ispettori internazionali. In secondo luogo, gli Stati Uniti e il Giappone si sono impegnati ad allacciare relazioni diplomatiche con Pyongyang e, specificamente l’amministrazione americana, ad eliminare la Corea del Nord dalla lista dei cosiddetti rogue States.

E’ a tutti gli effetti l’abiura della dottrina Bush – nella sua parte di più rigido confronto con gli Stati nemici – da parte del presidente che ne dà il nome. Non è un caso che siano piovute critiche feroci alla decisione in esame proprio da quegli ambienti che per sei lunghi anni hanno sponsorizzato la politica del non dialogo con Pyongyang. L’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John Bolton, ha dichiarato senza mezzi termini che il presidente ha finito per tradire quella dottrina. Bush ha risposto con toni altrettanto decisi, rispedendo al mittente le accuse e asserendo di credere nella diplomazia multilaterale e, all’interno di questa, in quel particolare negoziato capace di garantire un giusto equilibrio tra incentivi e penalità.

Il conseguimento dell’obiettivo principale – il completo smantellamento dell’arsenale nucleare già in possesso di Pyongyang – è rimandato ad un secondo round negoziale. E’ il nodo più delicato delle trattative tra le sei parti. Ma un’America capace di riconsiderare radicalmente il proprio approccio all’intera crisi e di ritornare a ragionare col metro delle politiche particolari, fermi i valori universali, è un’America che volta pagina.

Il fallimento del disegno di democratizzazione in Medio Oriente si sublima nell’altro dei due confronti nucleari in atto, quello iraniano. C’è da sperare che gli effetti del dialogo incentivante dei sei, riavviato con successo col “grand bargain” di Pechino, si riflettano in quello anch’esso esapartito con Teheran. Come ha rilevato il capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Mohamed El Baradei, la stabilità e il nuovo equilibrio nell’area che va dal Levante all’Oceano Indiano trovano nell’accordo tra Iran e Stati Uniti la loro tappa obbligata.


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