Il dito indica l’inflazione, il saggio guarda salari e mercato del lavoro

di Mario Seminerio – Domani Quotidiano

Prosegue il dibattito, tra mercati e politica, sul rialzo dei prezzi che un po’ ovunque si sta manifestando. La Federal Reserve statunitense e la Bce continuano a considerarlo temporaneo e a non ritenere quindi imminente l’inizio di un ciclo restrittivo di politica monetaria. Gli investitori temono che questa posizione costringerà le banche centrali a dover inseguire i prezzi sfuggiti di mano, con gravi danni per l’economia in un mondo sovraccarico di debito, emesso in questi anni di costo del denaro sottozero.

Negli Stati Uniti, i dati mostrano crescente difficoltà delle imprese a trovare personale, soprattutto nel settore del commercio al dettaglio e della ristorazione, che stanno riaprendo in massa dopo la pandemia. Molte aziende devono quindi ricorrere ad aumenti di paga e bonus di ingresso per gli assunti.

La polemica politica si è rapidamente focalizzata sui sussidi di disoccupazione, che sino a settembre godranno di una integrazione federale di 300 dollari a settimana. In tal modo, i percettori otterrebbero circa 2.500 dollari al mese, equivalenti a una paga oraria di oltre 16 dollari.

Un forte incentivo a restare fuori dal mercato del lavoro, dicono i Repubblicani e le camere di commercio. I progressisti ribattono che, se non si trovano lavoratori alla remunerazione corrente, basta aumentare le paghe. Il problema è quanta parte dei maggiori costi, del lavoro e delle materie prime, sarà possibile scaricare sui consumatori e come reagiranno questi ultimi, nella loro veste di lavoratori. Chiederanno nuovi aumenti di salario per compensare la perdita di potere d’acquisto? In altri termini, si creerà una spirale prezzi-salari?

Molti governatori statali hanno deciso di cessare in anticipo il pagamento dell’integrazione federale di disoccupazione, proprio per spingere il rientro sul mercato del lavoro.

Molti sussidi, meno lavoro

Questa situazione spiega qualcosa anche a noi italiani e alla nostra strutturalmente bassa partecipazione al mercato del lavoro. Quando le erogazioni di welfare sono sufficientemente alte, l’offerta di lavoro si contrae. Pare una banalità ma spiega perché bisogna fare una scelta, nel disegno dei sostegni alle famiglie: ridurre l’inattività e integrare le retribuzioni di mercato. L’alternativa è quella di avere “salari di riserva” troppo alti e bassa partecipazione al mercato del lavoro.

Sostenere, come fanno alcuni economisti e politici progressisti, che alti salari servono a spingere automazione e produttività, rischia di rivelarsi una fallacia, soprattutto in mercati del lavoro dove prevalgono servizi a valore aggiunto strutturalmente basso.

Non è affatto detto che l’aumento del costo del lavoro spingerebbe le aziende a recuperare produttività. E probabile invece che, subendo un calo di domanda per i propri prodotti e servizi, divenuti più costosi, le indurrebbe a tagliare l’occupazione, alimentando un circolo vizioso che porta a maggiore spesa pubblica per sussidi. In altri termini, a irrigidire la struttura economica del paese.

La sfida italiana su lavoro e welfare

Questo ci porta anche a riflettere sul disegno dei meccanismi di welfare, e alla proposta lanciata da Mario Draghi al recente Forum sociale europeo di Porto: rendere strutturale il SURE, i prestiti agevolati europei per combattere la disoccupazione. Qui la raccolta fondi viene fatta dalla Ue, che ha rating tripla A, e non dal paese beneficiario. Bene per l’Italia, che ha rating tripla B, non altrettanto per i paesi che possono raccogliere debito in autonomia e a condizioni favorevoli.

I paesi frugali, guidati dal premier olandese Mark Rutte, hanno già detto di no alla proposta, che peraltro richiederebbe condizionalità da inserire nel Semestre europeo, la programmazione di convergenza dei paesi al modello sociale ed economico deciso collettivamente dall’Unione.

Forse Draghi pensava di fare rientrare dalla finestra il vincolo esterno uscito dalla porta, o forse la sua è una genuina aspirazione a rafforzare la dimensione sociale della Ue. Di certo al nostro premier non sfugge che la politica sociale non può prescindere da quella del lavoro, che rappresenta arma competitiva a livello nazionale.

La sfida italiana è tutta qui: riformare il mercato del lavoro in senso di maggiore partecipazione e ridisegnare il welfare di conseguenza. Il rialzo dell’inflazione è un ostacolo aggiuntivo a questo doppio obiettivo. Di cui i mercati si sono forse già accorti, almeno a giudicare dal lento ma costante allargamento del nostro spread. Che, contrariamente a quanto molti credono, non è affatto passato di moda.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Scopri di più da Epistemes

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading