di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
L’ultima riunione della Federal Reserve pare aver avvicinato il momento in cui la banca centrale statunitense inizierà a ridurre la dimensione del proprio bilancio, gonfiato durante gli anni della crisi da politiche monetarie non convenzionali. Ciò accadrà riducendo progressivamente il reinvestimento delle cedole sullo stock di titoli posseduto dall’istituto guidato da Janet Yellen.
Ma oltre a ciò, il mercato resta ad interrogarsi su quando avverrà il prossimo aumento dei tassi d’interesse sul dollaro, e quanti ne seguiranno. Il dilemma deriva dal fatto che l’inflazione non accenna a portarsi in prossimità della soglia di equilibrio del 2%, e la Fed non è più così certa che questo andamento tiepido dei prezzi sia frutto di circostanze transitorie.
Alzare i tassi in presenza di inflazione che resta esangue vuol dire spingere al rialzo i tassi reali, ed esercitare un’azione depressiva sull’economia. Anche per questo motivo, oltre che per la sostanziale evaporazione delle attese per lo stimolo espansivo di Donald Trump, da qualche tempo sui mercati globali è in corso un movimento di deprezzamento del dollaro che nelle ultime settimane ha acquistato velocità, facendo scomparire le posizioni speculative che scommettevano pesantemente sul rafforzamento del biglietto verde.
Non estranea a questo movimento c’è anche la ritrovata forza dell’economia dell’Eurozona, con attese per la progressiva fuoriuscita della Bce dall’easing quantitativo che Mario Draghi sta cercando di pilotare con grande cautela, per evitare reazioni panicate dei mercati. Malgrado questa cautela, l’euro ha avviato una marcia al rialzo molto sostenuta, con ulteriore strappo recente causato dal fatto che Draghi non ha ancora espresso disagio per il rafforzamento della moneta unica europea.
La debolezza del dollaro aiuta i paesi emergenti, caratterizzati da forte indebitamento in dollari, e tirando le somme non dispiace né a Trump (che da sempre, nella sua visione piuttosto rudimentale dell’economia globale, predilige un dollaro debole) né alla stessa Yellen, che potrà proseguire ad alzare i tassi per compensare le condizioni monetarie espansive che un dollaro debole garantisce agli Stati Uniti. La priorità della Fed appare infatti quella di alzare i tassi per ricostituire munizioni monetarie per il prossimo rallentamento dell’economia.
In questo momento la congiuntura europea appare quasi euforica, dopo anni di sofferenza: la manifattura cresce in modo vigoroso, la domanda interna supporta la ripresa soprattutto attraverso i servizi. Ma un deprezzamento precipitoso e disordinato del biglietto verde danneggia l’export europeo, anche se i flussi commerciali dipendono dal cambio meno che in passato, e ripropone indesiderate pressioni disinflazionistiche. Nelle prossime settimane si capirà quale è la “soglia del dolore” per il cambio euro-dollaro e l’impatto sulla ripresa europea, soprattutto quella italiana, che sta dando timidi segni di vita.
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